Vivere da Marocchini in Umbria

Una inchiesta sugli immigrati marocchini in provincia di Perugia

Intervista a Fiorella Giacalone

LA PRESENZA IN UMBRIA DI OLTRE QUATTROMILA PERSONE (UOMINI, DONNE, BAMBINI), PROVENIENTI DAL MAROCCO, COSTITUISCE UNA COMUNITÀ? O LA QUESTIONE È PIÙ COMPLESSA, PER L’INTRECCIO TRA LE STORIE PERSONALI, I PROGETTI, I CONTATTI CON LA SOCIETÀ OSPITE, I TENTATIVI DI AGGREGARSI INTORNO ALL’IDENTITÀ NAZIONALE O ALLA FEDE RELIGIOSA? SU QUESTI TEMI HA INDAGATO UNA RICERCA, COORDINATA DA FIORELLA GIACALONE, ANTROPOLOGA DELL’UNIVERSITÀ DI PERUGIA, ORA PUBBLICATA NEL VOLUME MAROCCHINI TRA DUE CULTURE (F. ANGELI, MILANO). ALLA RICERCA HANNO COLLABORATO: LUCIO PALA, DOCENTE PER L’EDUCAZIONE DEGLI ADULTI, SPECIALIZZATO NELL’INSEGNAMENTO DELLA LINGUA ITALIANA A STRANIERI, CHE SI È OCCUPATO DELLE FORME DI AGGREGAZIONE E DEI TEMI EDUCATIVI; RICCARDO CRUZZOLIN, DOTTORANDO PRESSO IL DIPARTIMENTO ISTITUZIONI E SOCIETÀ DELL’UNIVERSITÀ DI PERUGIA, CHE SI È INTERESSATO AI PROBLEMI DI MARGINALITÀ E DEVIANZA; ASMAA LAFI, MEDIATRICE CULTURALE; E NUMEROSI ESPONENTI DI GRUPPI, ASSOCIAZIONI E CENTRI.

Quattromila Marocchini sono tanti, però non sembra che si vedano molto.

Un po’ perché sono sparsi in parecchi centri: molti sono a Perugia, un altro nucleo importante è nell’alta valle del Tevere, altri gruppi sono a Gualdo Tadino, a Bastia, nella zona del Lago... Ma più che Perugia, sono nella periferia e nei paesi: Ponte Felcino, Ellera, Ripa… Mentre sono molto pochi nella zona di Deruta o Todi, e nel Ternano. I Marocchini sono venuti qui in un primo tempo per i lavori stagionali, come la raccolta del tabacco, o per l’edilizia; questo tipo di immigrazione è iniziata con gli anni Ottanta, ed era soprattutto "agnatica", cioè basata su gruppi di fratelli o cugini, comunque maschile, e non su famiglie: quando hanno trovato un lavoro stabile hanno cominciato a far venire le mogli e i figli; e le famiglie tradizionali hanno parecchi figli, e quindi sono nuclei consistenti. Tuttora troviamo gruppi di fratelli e cugini che vivono insieme, alcuni sposati e altri no. Un altro tipo di immigrazione è costituito dalle sorelle, che emigrano per loro scelta di rompere i ponti con la famiglia; a volte sono divorziate o vedove. Un’altra dimensione interessante è quella delle famiglie estese, in cui oltre ai fratelli ci sono anche più generazioni: abbiamo trovato una famiglia con i nonni e tredici figli, alcuni sposati con figli.

Come avete proceduto nella ricerca?

Abbiamo lavorato in più persone anche perché nel mondo arabo-islamico la divisione tra i sessi è piuttosto marcata, quindi per me era più accessibile parlare con le donne all’interno della famiglia, e per i miei colleghi era più facile parlare con gli uomini. Quindi potevamo anche meglio differenziare la ricerca e far emergere gli interessi propri di ciascun gruppo; a me in particolare interessava capire come vivono le donne arabe che sono in genere invisibili nel contesto umbro, ma ci sono: le dinamiche familiari, i ruoli…, mentre Lucio Pala si è interessato ai ruoli formali, e quindi agli aspetti istituzionali o di aggregazione maschile, formale o informale: il Centro culturale islamico, che è la struttura più forte in Umbria, che c’è dal ’76, e rappresenta l’Islam ufficiale; perché ci sono anche diversi i gruppi islamici, anche in conflitto fra loro, non c’è un referente unico; anche nella moschea di Roma, la più importante d’Italia, ci sono i rappresentanti di vari paesi islamici, e c’è una tendenza integralista, che fa riferimento a gruppi del medio Oriente e dall’Arabia saudita, mentre i gruppi più moderati sono quelli nord-africani, marocchini, tunisini e anche algerini; quindi da una parte c’è un potere economico, dall’altra invece una presenza maggiore di magrebini, che hanno un atteggiamento più laico. Infine, Riccardo Cruzzolin ha scelto il settore della devianza, perché purtroppo la comunità marocchina ha anche una fama negativa per la presenza dello spaccio alla tossicodipendenza. Non era facile indagare un fenomeno di questo tipo; è stata fatta una rilevazione dei reati, presso il Tribunale, e sono stati intervistati alcuni spacciatori nel carcere di Perugia, con il permesso della direttrice, per capire i fenomeni di identità più forte che si scatenano con la carcerazione.

Avete usato l’intervista come metodo per raccogliere i dati?

Noi abbiamo usato due strumenti: l’intervista e l’osservazione; l’intervista a temario, a seconda degli ambiti che volevamo analizzare, come la famiglia, la devianza, la scuola, e l’osservazione nelle case, o durante le feste del ciclo della vita, nelle case; osservazione delle feste religiose, pubbliche, come l’Aid el Fitr che è la festa di fine del Ramadan, e l’Aid el Kebir che è la festa del sacrificio, che ricorda Abramo e corrisponde un po’ alla nostra Pasqua; le feste interculturali, in cui i Marocchini si ritrovano con gli Italiani; e infine l’osservazione in luoghi istituzionali, come la moschea o l’associazione marocchina, per avere sia l’ambito quotidiano che quello più istituzionale: non c’è un’indagine sul lavoro, perché già ci sono molti dati, e anche perché il lavoro non ha una identità etnica. Comunque i Marocchini sono impegnati soprattutto nell’edilizia, nel commercio…

Quindi voi avete indagato soprattutto gli aspetti comunitari.

Si, soprattutto gli aspetti interni alla comunità. Le associazioni marocchine sono abbastanza importanti perché ormai sono otto nella regione, per cui ogni centro ne ha una, a Bastia, a Foligno, Perugia, Umbertide, Città di Castello… e sono in diretto rapporto con l’Ambasciata e il consolato, quindi hanno un ruolo un po’ intermediario tra lo stato, la monarchia marocchina, e i connazionali che sono qui; fa un lavoro di servizio per visti, permessi, ma è anche una forma di controllo sociale perché chi si iscrive all’associazione è fedele al re.

E invece quali sono le aggregazioni di tipo informale?

Sono i bar, c’è un bar marocchino a San Sisto che è diventato un punto di riferimento importante perché gestito da marocchini, ha le scritte in arabo, ed è poco frequentato dagli italiani; altri bar meno "etnici", alcuni negozi di alimentari gestiti da marocchini; e poi gli stadi, perché i nordafricani amano il calcio quanto gli italiani, è un modo di promozione sociale: ho conosciuto alcune famiglie in cui ci sono ragazzini adolescenti che lo praticano da professionisti, e quindi sono un sostegno notevole alla famiglia perché guadagnano molto più di un muratore o un operaio agricolo, ed è quindi anche una forma di mobilità sociale molto ambita.

Tutto questo è il versante maschile: ma com’è quello femminile?

Bisogna dire che la gran parte dei marocchini che sono qui viene da situazioni di precedente inurbamento, ad esempio sono di Casablanca ma la generazione precedente proveniva dalla campagna; molti hanno un basso livello di istruzione; però dieci-quindici anni fa c’è stata una onda di emigrazione intellettuale: scrittori, pittori, e tra loro molte donne, laureate, che hanno fatto la scelta di vivere sole. Quindi tra le donne trovi situazioni di grande emancipazione, con donne molto determinate e forti, perché comunque si trovavano a vivere da sole e quindi hanno fatto una scelta di vita molto difficile; oppure troviamo donne che vengono insieme con il marito: quindi si trovano o situazioni molto tradizionali, o persone che hanno fatto una scelta di cambiamento radicale. Chi stia meglio, è difficile da dire, perché le donne tradizionali sono sicuramente isolate, spesso non parlano italiano, non lavorano, e l’isolamento è rotto solamente dalla circolarità con le altre donne nordafricane: sono comunque donne che hanno un grande potere sui figli e la famiglia, non solo da piccoli ma anche sulla scelta matrimoniale dei maschi; mentre le donne intellettuali, che lavorano con le istituzioni, nei tribunali o nelle scuole, come traduttrici o mediatrici, sono malviste dagli immigrati perché hanno fatto una scelta di vita più occidentale, più libera. Quindi, sono due tipi di solitudine.

Ci sono segni di cambiamento, di ibridazione?

C’è ibridazione alimentare, soprattutto tra le donne che vivono da sole; l’ibridazione alimentare può essere la pasta, o la pizza, che poi è un cibo mediterraneo; però in genere mantengono molto le abitudini alimentari tradizionali, di vegetali con pochissimi formaggi, soprattutto delle carni: agnello, vitello, e il pollo quotidianamente, con le verdure, con le mandorle; è una cucina abbastanza elaborata. Poi si portano i forni, con cui fanno il pane in casa, il loro pane piatto che assomiglia molto alla torta al testo; e le donne fanno tutte il pane in casa, anche quelle che lavorano. Ma il cambiamento io lo vedo soprattutto nella gestione delle figlie femmine che stanno qui, e devono accettare un compromesso con la società ospite, per cui anche se dànno una educazione molto rigida devono poi tener conto che qui le ragazze hanno più libertà, e le ragazze si ribellano di più; c’è un conflitto con i genitori, in cui la madre cerca di mediare rispetto al padre; dall’altra parte, i figli hanno una conoscenza molto più approfondita della lingua, sono in grado di muoversi con i servizi molto meglio dei genitori, la madre spesso non parla italiano ma anche il padre parla poco italiano e non lo sa né leggere né scrivere, e quindi i figli diventano un po’ mediatori con le istituzioni, e l’adolescente viene ad avere un potere in più rispetto al padre o alla madre, che è la conoscenza del contesto. Ne nasce un conflitto tra le generazioni, che nel caso delle ragazze è più forte.

Hai trovato situazioni di riassunzione di simboli tradizionali da parte di giovani, come sfida?

Il discorso dell’hijab, cioè il velo che portano le donne, è complesso: in Marocco, lo portano solo le donne di una certa età che sono abituate a portarlo; per le giovani è diverso: ci sono state situazioni in cui il padre si è accorto che le figlie adolescenti venivano viste male dai compagni di scuola ed è stato lui a dire: "Non ve lo mettete più"; altre invece in cui il ritorno alla religione e all’uso del velo diventa un modo per riaffermare la propria identità in un contesto in cui non ci si sente accettati; ad esempio, una ragazza giovane che non aveva mai portato l’hijab in Marocco, e dopo cinque anni che sta qui lei si è trovata la religione come dimensione di identità e quindi si è rimessa il velo; o una signora che di fronte al fallimento del suo matrimonio si è richiusa nel velo, che non aveva mai messo in vita sua. Mi colpisce molto comunque che c’è un forte controllo sociale sulla vita delle donne, che si esplicita nella scelta del marito, nel comportamento che le donne devono avere, che non è tanto quello reale ma è quello che "si vede", l’aspetto formale, che si esprime attraverso il pettegolezzo. Quindi molte donne preferiscono non frequentare connazionali per non sottostare a questo controllo.

E non ci sono altre forme di aggregazione di donne?

No; qui non c’è l’hamman, il bagno pubblico, dove si ritrovano le donne. Ci sono le feste, le feste del ciclo della vita. Per le associazioni, teoricamente, le donne non sono escluse, ma se le donne ci stanno nascono problemi di gelosia tra le mogli; quindi di fatto le donne non partecipano.

Oltre alla vita religiosa, c’è una attività politica vera e propria, dei movimenti politici?

No, almeno tra quelli che sono qui no. Ci sono delle persone che fanno attività sindacale, e qualcuno si è anche iscritto a Rifondazione, ma nel contesto italiano. Non c’è neanche un capo della comunità; anche l’iman è palestinese, non marocchino; in realtà sono molto individualisti.

Che cosa è emerso dalle interviste ai marocchini nel carcere?

I ragazzi coinvolti nello spaccio sono molto giovani, spesso con livello studi medio-alto, e che proprio per una maggiore consapevolezza di sé hanno scelto di andarsene rompendo con la famiglia, alcuni in condizioni di clandestinità, molto precarie, e hanno cercato un inserimento; l’impossibilità di una integrazione di tipo lavorativo ha fatto scegliere una integrazione di tipo negativo, perché comunque nel circuito della tossicodipendenza ci sono dei riferimenti, dei protettori, degli amici; quindi diventa un legame molto forte; spesso hanno delle ragazze, tossicodipendenti italiane, per cui si crea un legame di dipendenza tra lo spacciatore marocchino e la ragazza italiana che diventa un rapporto affettivo, perché ciò che manca a questi ragazzi è proprio la dimensione familiare. Dove ci sono le famiglie, i ragazzi sono più controllati, c’è un’affettività che li contiene; quelli soli si sentono abbandonati, specie perché abituati a una famiglia allargata, ed anche se l’hanno rifiutata si ritrovano senza punti di riferimento. E comunque, è interessante notare che anche nell’ambito della devianza, i marocchini preferiscono questo settore sia perché c’è il commercio, che fa parte della loro mentalità, e sia perché porta a rischiare in proprio, e quindi a non coinvolgere la propria compagna, che malgrado tutto rispettano. Invece rarissimi sono gli episodi di prostituzione, e comunque non abituali e assolutamente nascosti; e non c’è un fenomeno di prostituzione organizzata dagli uomini della comunità, come avviene per i nigeriani o gli albanesi, perché è ritenuta, anche dai ragazzi in carcere, una cosa infamante. C’è una sua regola morale, quasi una dignità anche dentro la devianza, che è quella di rischiare in proprio.

Che cosa dicono i Marocchini "tra due culture" dei rapporti con gli Italiani?

I Marocchini hanno una lunga tradizione di rapporti con la cultura occidentale; e non c’è stata una guerra di indipendenza come in Algeria, quindi non c’è una frattura storica; quindi da un lato c’è un rapporto meno conflittuale con la nostra cultura, dall’altra c’è una situazione economica così difficile in Marocco, con una disoccupazione giovanile altissima, per cui molti sono costretti ad andarsene.

Io sento da parte loro una grande nostalgia per il loro Paese, soprattutto per la vita comunitaria, di vicinato, quelle relazioni molto forti tra le persone, che in Italia non ci sono. Da un lato pensano che gli Italiani siano troppo permissivi; i più tradizionalisti pensano che la donna è troppo libera; e poi ci considerano molto poco religiosi; ma l’immagine dell’Italiano cambia a seconda di chi intervisti; molti sono venuti per cercare una emancipazione di tipo economico e sociale e invece si ritrovano invece trattati come persone di seconda classe; e c’è una tensione per il fatto che in Europa, dove sono nati i diritti di cittadinanza, questi valgono per gli Italiani ma non per loro.

Ci sono punti di contatto tra le due culture?

La cosa su cui ho trovato come un’intesa è la medicina popolare e la cura dei figli: veramente le pratiche nostre e quelle marocchine sono in realtà identiche, perché hanno la stessa matrice di medicina umorale mediterranea tradizionale, dai Greci ad Avicenna. Per esempio, l’uso di togliere i vermi ai bambini con l’aglio: noi lo facciamo ingoiare oppure con pratiche magiche sulla pancia; loro lo usano come supposta: in ogni caso, l’aglio è vermifugo. Oppure le erbe usate contro la tosse, l’olio d’oliva strofinato… Questa matrice mediterranea comune si vede più negli aspetti popolari che in quelli istituzionali; così c’è un Islam popolare, in cui si fanno le pratiche contro il malocchio, le mani imposte ai bambini per proteggerli, l’uso dei "brevi" che per loro è una catenina con una targhetta d’oro con una sura del Corano; oppure i braccialettini con un’erba usata contro il malocchio; e poi pratiche superstiziose identiche alle nostre, come buttare il sale dietro le spalle; e ancora, il culto dei santi: i magrebini venerano i marabutti, in santuari a cui va sulla tomba del santo a chiedere le grazie, a chiedere un figlio, un figlio maschio… C’è il pellegrinaggio; i santi fanno miracoli… Il fenomeno del marabuttismo è molto complesso: l’Islam ufficiale lo combatte, però è talmente forte come credenza che è impossibile estirparlo. E’ un fenomeno solo nordafricano, mediterraneo; in medio Oriente non esiste. Un’altra credenza interessante è la credenza sui ginn, che sono una specie di demoni, non necessariamente cattivi; sono figure che possiedono una persona e hanno comportamenti particolari: forme di trance, di paralisi… e per curare questo tipo di malattia, che è molto simile al tarantismo, c’è una danza estatica, fatta con figure che gestiscono la danza e fanno parte di confraternite, ognuna delle quali cura un tipo di malattia. Ad esempio la nonna di Asmaa era una santona che curava una ginnia che si chiama Aiscia Candisca, che possiede gli uomini. E ai ginn bisogna stare attentissimi, perché il ginn può salire dal lavandino, dal vater… e allora, alcuni di loro, quando entrano nelle case, fanno una purificazione con il sangue di un animale sgozzato, che viene versato in tutti i passaggi, le aperture come i lavandini ecc., e poi li tappano per evitare che passino i ginn. Così il primo bagnetto che si fa al neonato non si fa in bagno, ma portano una vasca in camera e lo lavano lì, per paura che entrino i ginn. Quindi è una cosa molto diffusa, che ha a che vedere col tarantismo ed altre forme di possessione non demoniaca ma comunque spiritica. Quindi anche su questo è molto più facile un rapporto con il mondo arabo se partiamo dalla cultura tradizionale nostra, che non a livello ufficiale. Quando vado con queste donne, e mi metto a parlare di medicina, di cura di figli, non mi sembra neanche di parlare con straniere, soprattutto perché vado dalle donne più religiose, proprio quelle che portano il velo, più tradizionali, mentre quelle pseudo-emancipate non sono più né di una parte né dell’altra, cioè non conoscono la cultura tradizionale ma nella nuova cultura stanno anche peggio.

 

 

In libreria:

Marocchini tra due culture. Un’indagine etnografica sull’immigrazione, a cura di Fiorella Giacalone, F. Angeli ed., Milano 2002, 239 pp., € 16,50.