SOMMARIO

      Il Tevere e La Fratta               

 

A colloquio con Renato Codovini, Luigi Carlini, Guerriero Boldrini
e Natali Domenico

Tante volte nella storia il Tevere ha cambiato mestiere ed umore, adeguandosi alla volubilità
con cui gli Umbertidesi hanno modificato il loro rapporto con il fiume, alternando periodi di
esaltazione ad altri di abbandono. Ce ne parla
Renato Codovini, storico umbertidese.

Prima è stato generoso supermercato di pesce, vitale per il nutrimento dei nostri antenati; poi si è
specializzato come superstrada lungo la quale lasciar galleggiare verso Roma le querce che
coprivano le colline e per far risalire i ricchi villeggianti imperiali che già avevano capito dove
c’era da stare tranquilli. Ma le strade consolari convogliarono altrove i viandanti, emarginando
l’alto Tevere e le sue genti al ruolo di enclave che per millenni non riusciranno a scrollarsi di
dosso.

Il periodo di massima armonia fra l’uomo ed il fiume è cominciato quando, nel XII secolo, gli
abitanti di Fratta si gettarono nelle braccia di Perugia, intuendo che non era il caso di sfangarla da
soli in tempi in cui le scaramucce fra vicini erano quotidiane ed il sangue scorreva a ruscelli; i
Perugini gradirono e presero la palla al balzo costruendo una grande diga, per rafforzare la
sicurezza militare di Fratta, roccaforte al confine Nord del loro dominio. Ma la gente pacifica del
luogo pensò bene di utilizzare l’invaso per sviluppare la propria economia: l’acqua imbrigliata fu
costretta ad azionare le pale del Molino di Sant’Erasmo, le mole per arrotare le falci dei fabbri,
i martelli per ammorbidire le stoffe nella gualchiera. Insomma nel piazzale davanti a San Bernardino,
a fianco dello sbarramento, si sviluppò un vera zona industriale. I fabbri del luogo conquistarono
una celebrità indiscussa soprattutto nella fabbricazione delle falci, che a Roma andavano a ruba.

Ma l’avvento della polvere da sparo – fra i molteplici danni – mandò in pensione il fossato intorno
alle mura, considerato che le palle dei cannoni non soffrivano di reumatismi nel guadarlo.
Quindi nessuna "livera di denari" fu più destinata alla cura della diga: anche allora – né i secoli
hanno portato miglior consiglio - l’interesse militare prevaleva su quello dei poveracci, che non
devono mai perdere l’abitudine di accontentarsi delle briciole. Il fiume se ne ebbe molto a male: la
prima volta che piovve più del solito pensò bene di vendicarsi; fece il dispetto di aprire una breccia
nello sbarramento, che diventò una voragine. Purtroppo il danno andò oltre la sua volontà: i flutti
presero così tanta velocità che fecero crollare il ponte e le mura; gli ingranaggi davanti a San
Bernardino, rimasti all’asciutto, tacquero per sempre e gli abitanti dovettero stringere ancora di più
la cinta dei calzoni, senza che nessuno avesse bisogno di diete dimagranti. Correva l’anno 1610.
Il Tevere, resosi conto di averla fatta grossa, cercò di farsi perdonare qualche decennio dopo,
quando le truppe del Granduca di Toscana si schierarono minacciose sulle colline alla sua riva
destra, intenzionate a distruggere il mansueto paese che aveva la sola colpa di sottostare al potere
della Chiesa. Il fiume si gonfiò all’improvviso frapponendosi eroicamente fra gli abitanti del castello,
 con i forconi tremanti in mano, ed i soldati della riva sinistra, armati fino ai denti; i quali preferirono
evitare un bagno gelido - era il novembre del 1643 – e ritornarono sui loro passi.
La pace era fatta: fra il Papa ed il Granduca; ed anche fra il Tevere e gli abitanti di Fratta, che durò
a lungo.

Ma il rapporto tra il Tevere e l’uomo è stato anche di lavoro, di cura, di attenzione; è il caso
del "lido" di Umbertide, come viene ricostruita in un colloquio ai giardinetti con
Luigi Carlini,
figlio di "Torello",
Guerriero Boldrini, figlio del "Ronchio", e Natali Domenico
, detto "Sergio".

Ci pensò l’autarchia a consolare il Tevere: un gruppo di giovani, poco più che ventenni, si mise in
testa di aprire lungo la riva una succursale dell’Adriatico. Qualche camion di sabbia da Senigallia
per ricoprire l’erba del patollo, una sfilza di ombrelloni a rallegrare la spiaggetta, una flotta di
mosconi sullo specchio d’acqua sopra la Salcetta, ed il "Lido" era fatto. Bagni ed elioterapia la
mattina; pisolini e letture il pomeriggio, rinfrescate da gazzosa servita dalla moglie del Ronchio con
il grembiule bianco; galà danzante la notte, al suono di "Ramona", con le signore in lungo, gli
uomini in farfallino ed i camerieri in cappellino e livrea. E tutti gli altri, che non se lo potevano
permettere, a sbirciare dietro il recinto, una testa incastrata all’altra, bisbigliando commenti in
diretta sugli amori che sbocciavano ed appassivano. Poi la volubilità del fiume – forse non ama
tanta combriccola – ha spazzato via tutto; appena in tempo per non lasciarne il compito alle bombe,
 che la mattina del 25 aprile del 1944 scagliarono i sassi del suo pietriccio dappertutto, ad
annunciare la morte; ma anche la democrazia ed il benessere; ma anche l’inquinamento e
l’abbandono. E’ stato divorzio fra il fiume e l’uomo. Oggi sembra tempo di riconciliazione.
Le bandiere variopinte di plastica sono state ammainate dalle salci delle sponde, dove sono sorti
campi da pesca sportiva, parchi, passeggiate. L’acqua ha ripreso il suo colorito verde fosco.
La grande diga del Montedoglio, contro cui tante cassandre si scagliarono finché non furono
tacitate con le commesse per la sua costruzione, ha messo giudizio all’irascibilità del fiume,
regolandone le piene ed evitandone le magre. La speranza è che l’uomo abbia definitivamente
imparato ad evitare magre nei confronti del fiume.

RISONANZE

Una corda di violino in riposo si risveglia quando entra in ascolto di un suono intrigante, una
vibrazione particolarissima – la propria "frequenza di risonanza" – strettamente legata alla sua
conformazione fisica: il materiale, la lunghezza, lo spessore. Per dimostrare la sua simpatia
risponde al richiamo oscillando spontaneamente sulla stessa lunghezza d’onda del suono
misterioso che l’ ha eccitata. Se più corde con frequenze di risonanza armonicamente legate fra
di loro - amiche – decidono di unirsi, la loro comitiva diventa un violino.

L’uomo è più ricco di una corda: dispone di più frequenze di risonanza, portate in eredità dai
cromosomi ed accordate dal proprio vissuto. Perché un giornale riesca ad emozionare - nel senso
etimologico del termine - i propri lettori, deve essere cassa di risonanza armonica dei loro valori.
Insomma: deve essere amico.

Un giornale che ha scelto di chiamarsi "Risonanze" sicuramente ne ha l’ambizione.