SOMMARIO

Il passaggio del fronte a Città di Castello          


SU QUESTO PERIODO DRAMMATICO DELLA NOSTRA STORIA, ANTONELLA LIGNANI HA RACCOLTO NEL 1995,
DOPO UNA CONFERENZA TENUTA ALL'UNIVERSITÀ DELLA TERZA ETÀ DI CITTÀ DI CASTELLO,
UNA SERIE DI TESTIMONIANZE ORALI E SCRITTE. NE ABBIAMO SCELTE DUE DAL VOLUME CHE STA
PER PUBBLICARE /HA PUBBLICATO.

Il giorno più lungo della mia vita

(testimonianza raccolta da Maria Mastriforti Romeggini)

Avevo diciassette anni quando con la mia famiglia sfollai a Selci Umbro, ma nei primi giorni dell’avvicinamento del fronte
ci trasferimmo ai Renzetti, precisamente alla Capitanata e lì rimanemmo per un mese circa vicino a una batteria di cannoni
tedeschi. Per fortuna eravamo riparati da un’altura, situata davanti alla casa, e, nonostante i continui cannoneggiamenti tra
Tedeschi e Angloamericani, non venivamo colpiti proprio per questa protezione naturale.

Quando sapemmo che Città di Castello era stata liberata dagli Angloamericani, decidemmo insieme ad altre persone
castellane, sfollate vicino a noi, di ritornare in città attraversando le linee del fronte. Infatti una mattina, una decina di persone,
 in fila indiana, ci avviammo attraverso i campi, evitando qualsiasi strada, anche secondaria, per paura di essere mitragliati.
Ad un certo punto ci trovammo proprio in mezzo al fronte e precisamente in una zona, dove la battaglia infuriava più violenta
 con cannoneggiamenti da ambo le parti. Dovemmo rifugiarci in una casa colonica, dentro una stalla, e lì ci trattenemmo per
 circa un’ora in attesa che lo scontro cessasse.

Approfittando di un attimo di tregua ci rimettemmo immediatamente in cammino, sempre in fila indiana, dietro mio padre
 che con la massima cura sceglieva dove mettere i piedi a causa del terreno minato. Noi lo seguivamo, facendo molta
attenzione a mettere i nostri piedi sulle sue impronte.

A un certo punto incontrammo quattro Tedeschi; trasportavano in una barella un loro camerata, che era stato colpito da una
 mina. Ricordo particolarmente questo fatto perché vidi il giovane soldato in fin di vita, mentre i suoi compagni alzavano una
bandiera bianca con una croce rossa bene in vista davanti alla barella.

Finalmente giungemmo ad una strada bianca e lì ad un centinaio di metri trovammo un carro armato inglese.
Ci sentimmo finalmente liberati dalla paura di questo giorno terribile e tremendamente lungo che ci aveva fatto temere per
la vita. Gli alleati ci accolsero gioiosamente gettandoci cioccolate e sigarette per risollevare il nostro morale.

 

Ricordi della mia adolescenza, che vanno dal 1940 al 1944: tutto il tempo della guerra

(Testimonianza scritta di Zelmira Esposito)

Avevo allora 14 anni ed una esuberanza e una voglia di vivere superiore alla media, quando scoppiò la seconda guerra
mondiale. Ero e per fortuna sono la prima di sei figli fra fratelli e sorelle. Avevo un angelo di padre che adorava i suoi sei figli
come non potevo immaginare (…).

Noi abitavamo a fianco del Duomo di fronte al Giardino del Cassero nella casa della Curia all’inizio della Pendinella. Il 2° piano
 era occupato dal Prevosto Ranieri e dalla sua nepote. In tempo di guerra questo grande appartamento fu quasi tutto requisito
dai tedeschi e vi fu installato il Quartier Generale. Ricordo che mio padre geloso come era dei figli a me e mia sorella che
eravamo le più grandicelle ci teneva quasi sempre in casa per la paura che questi tedeschi ci molestassero.

Ma un giorno un tedesco alla guida di un piccolo carro armato volle a tutti i costi infilarsi dentro il nostro portone con tutto il
carro armato. Forse cercava di nascondersi o era irritato. Premetto che il nostro appartamento era quasi al piano terreno e la
porta di ingresso era larga quanto quella di un garage. Così a mio padre toccò il compito di tenere la guardia a questo tedesco
 fino a che non si fosse deciso ad andarsene per non farlo entrare in casa, perché bastava che facesse tre scalini che ce lo
avremmo trovato davanti. Così mio padre ci chiuse in camera e lui passò tutto il pomeriggio con questo tedesco dentro
l’ingresso perché non voleva andarsene. Per fortuna con la persuasione lo convinse: gli disse che gli inglesi erano vicini e che
per lui era meglio se si fosse allontanato, e quando sentimmo il rumore dei cingoli capimmo che eravamo salvi. Ricordo che
lasciò a mio padre per il disturbo un sacchetto di caramelle quale ricompensa dello scomodo, e noi bambini ne facemmo
razzia dato che era tanto che non ne vedevamo.

Un altro episodio che ricordo fu quando mio fratello Costante che aveva 11 anni si affacciò alla porta di casa ed in quel
 momento passava un tedesco con un sacco sulle spalle pieno di qualche cosa. Quando vide questo ragazzino, lo chiamò,
gli caricò il sacco sulle spalle e lo portò con lui a forza di caman caman. Appena mio padre se ne accorse lo inseguì, lo
raggiunse alla fine della Pendinella e si offrì al tedesco al posto del figlio e mio fratello così tornò di corsa a casa. Intanto con
il tedesco mio padre era arrivato al Ponte del Tevere sempre col sacco in spalla. La faccenda poteva complicarsi, deve aver
pensato lui. Allora ebbe un lampo di genio, così a me era sembrato. Si finse infelice e camminava dietro al tedesco
trascinando una gamba vistosamente. Il tedesco, che aveva gran fretta, continuava a ripetergli caman caman, ma mio padre
faceva orecchi da mercante, fingeva di non capire fintanto che il tedesco gli strappò con rabbia la balla dalle spalle, facendola
cadere, essa allora si aprì, così poté vedere il contenuto del sacco. Vi erano delle galline morte, alle quali era stata mozzata
la testa. Ma non ebbe il tempo di soffermarsi a lungo a chiedere spiegazioni, perché fece un bel dietro front e zoppando
zoppando, quando fu lontano dalla vista del tedesco si mise a correre per tornare in seno alla famiglia (…).

Un’altra cosa che ricordo quando sfollammo, mio padre e mia madre caricarono un carretto a mano con tutto quello che
potevano caricare e ci incamminammo a piedi ai Badiali. Ci sistemammo in casa di una famiglia di contadini; ci alloggiammo
 nel granaio e rimanemmo lì una ventina di giorni, ma nonostante ci avessero accolto con grande amore e amicizia non
abbiamo resistito oltre e un bel giorno i miei ricaricarono il carretto e tornammo in città. Noi in famiglia eravamo in dieci
perché si erano aggiunti a noi anche i nonni e tutti in quel granaio era una vita quasi infernale. Tornati a casa, durante il
giorno si stava quasi sempre chiusi e la notte si andava a dormire nella Sacrestia del Duomo con il compianto don Topi,
il prevosto Ranieri (noi lo chiamavamo così), la nepote Francesca ecc. Eravamo in tutti una ventina di persone fra grandi e
piccoli. Si dormiva sul pavimento con qualche coperta e ci si coricava vestiti tutti su questo ambiente, perché dicevano i
grandi che questo era il posto più sicuro dalle bombe (…).

Un altro ricordo è quando per carnevale a me e ad alcune compagne di scuola ci venne in mente di fare le castagnole, ma
non avendo la materia prima decidemmo di portare via da casa quello che era necessario per confezionarle e quello che si
avrebbe trovato, così raccimolammo farina, uova, però nessuno di noi aveva l’olio per friggerle. Fu allora che mi ricordai che
mia madre, dopo aver cucinato e fritto qualcosa, l’olio lo conservava in un grosso recipiente di vetro per riusarlo ancora.
 Lo presi, lo portai a casa di Rosetta, la mia compagna di scuola, e tutte insieme cominciammo a preparare queste
castagnole: ora gli ingredienti li avevamo tutti, ma mancava l’esperienza e dopo tanto lavoro riuscimmo a fare più che le
castagnole delle palle dure che sembravano palle di biliardo ed erano immangiabili, ma credetemi, noi un po’ per fame un po’
per l’allegria di essere assieme a fare festa ci sembravano deliziose, nonostante fossero state fritte con quell’olio che
nemmeno per ungere il motore di una macchina sarebbe stato da adoperare.

E intanto gli anni passavano e la guerra continuava. Avevo già 16 anni e tanta voglia di divertirmi; ne avevo abbastanza della
guerra e dell’austerità. Quando, sempre per carnevale, alcune compagne mi informarono che vicino a casa dei miei nonni e
precisamente al Fungo, una casa che si trova vicino all’Asilo Cavour, si allestiva una serata da ballo al suono di una vecchia
fisarmonica e mi chiesero se volevo partecipare anch’io. In casa i miei genitori erano molto severi e non mi avrebbero mai dato
 il permesso, così escogitai uno strattagemma. Chiesi a loro se quella sera potevo andare a dormire dai miei nonni e non
sospettando nulla mi dissero di sì e mi accompagnarono. Aspettai che i miei nonni si fossero addormentati e quando sentii
le mie amiche sotto casa che mi chiamavano, mi vestii in fretta e con le scarpe in mano e con un gran batticuore per la paura
 che si svegliassero (era la prima scappatella della mia vita) così scalza in pieno inverno uscii per andare al ballo. La sala era
 uno stanzone; mettemmo i mobili e le sedie tutto da un lato, per fare spazio per ballare con la musica in sordina e al lume di
 candela, affinché fuori non vedesse e non si sentisse. Eravamo tutte ragazzine, ma cercavamo in qualche maniera di
ascoltare un po’ di musica e stare assieme. Soprattutto per dimenticare gli orrori che ci circondavano. Ma questo tempo di
rilassamento fu breve e appena finì ci apprestammo per tornare a casa, eravamo quasi arrivate quando sentimmo dei passi
 cadenzati e allora in un batter d’occhio il gruppo sparì e si sciolse come neve al sole, e andammo a ripararci nei diversi
portoni che trovammo che a quell’ora lasciavano aperti.

Io ricordo che con un’altra amica mi rifugiai dentro il portone del Palazzo Bruni per il Corso. Ci appiattimmo in attesa che si
allontanassero quei passi. La paura di uscire era tanta, rimanemmo lì più di un’ora al buio, al freddo e mezze morte di paura.
Quando ci rendemmo conto che era la Ronda e che l’avremmo fatta grossa perché c’era il coprifuoco e potevamo finire in
guardina, ci mettemmo a piangere cercando di consolarci a vicenda, ma non sapevamo più cosa fare.
Per fortuna quando non sentimmo più alcun rumore uscimmo con il cuore in gola. Ora il peggio era rientrare: e se i nonni si
fossero svegliati? e si erano accorti che io non ero a letto? Quali conseguenze mi sarebbero aspettate? E piano piano,
sempre senza scarpe, entrai in casa; sentii che loro dormivano saporitamente; io ebbi il tempo di entrare a letto e rifugiarmi
fra le coperte e loro non seppero mai niente.

Questa era la nostra adolescenza, che ha durato quattro lunghissimi anni. Io ringrazio chi mi ha dato la possibilità di ricordare
 queste cose, perché ho rivisto come un film tutte le persone care di quel tempo. Non posso dire di provare nostalgia, perché
fu un periodo triste, brutto, ingiusto. Tuttavia lo rivivo quasi con affetto, con tenerezza, perché allora ogni cosa contava e come
 contava!

Città di Castello, 1 marzo 1995

Esposito Zelmira