L’istruzione è un bene pubblico

A scuola di libertà e responsabilità

Intervista a Diana Cesarin e Dario Missaglia

 

In margine ad una assemblea cittadina, organizzata da un cartello di associazioni ma per la verità poco affollata, tenutasi a Perugia il 26 maggio, abbiamo discusso sul tema della (scarsa) partecipazione alla mobilitazione contro la riforma Moratti con due dei relatori: Diana Cesarin, segretaria nazionale del Movimento di Cooperazione Educativa (già ospite di "risonanze" sul n. 4), e Dario Missaglia, esponente nazionale del sindacato Cgil.

Diana Cesarin: Comincerò da un dato: c’è stata mobilitazione su altri temi; c’è stata mobilitazione sul tema della giustizia, c’ero anch’io a Montecitorio quando si discuteva della legge Cirami: in un battibaleno decine di centinaia di persone si sono ritrovate a esprimere indignazione, sensibilità, attenzione, cittadinanza e desiderio di cittadinanza, cura e amore del senso delle istituzioni e per questo paese, per il rischio di degrado che sta vivendo. Per la scuola, questo non succede. E io credo che questo sia un momento di grande preoccupazione; e mi viene subito da pensare che questo dato va proprio letto, indagato, interpretato, con grande coraggio e responsabilità: perché come non vedere il rapporto che c’è tra scuola e giustizia; e quale giustizia, se un sistema-paese non si dota di quegli strumenti che consentono davvero l’esercizio della cittadinanza. La cittadinanza ha bisogno di strumenti reali, di chiavi vere, per essere esercitata; che, nella società della conoscenza, sono le conoscenze, l’istruzione, il poter acquisire le competenze necessarie ad orientarsi in questa società, a leggerla e ad intervenire; senza di questo la cittadinanza è una parola vuota, se non si traduce in diritti positivi e nell’esercizio di quei diritti: e i diritti cominciano da quello all’istruzione. Ecco la necessità di un sistema dell’istruzione che svolga la funzione che la Costituzione gli dà. Eppure questo nesso evidente non viene colto. E ce n’è un altro: quale giustizia senza pace, e senza cultura di pace? Ma quand’è che si può davvero imparare la pace? Ed oggi è più che mai evidente che non c’è pace se non nella capacità di riconoscere l’altro, di dialogare e di costruire giorno per giorno le condizioni per convivere tra diversi. Non c’entra nulla il terrorismo, che è un problema di polizia internazionale; mentre ascrivere ogni espressione, ogni gesto che arrivi dal mondo arabo come espressione di terrorismo, è un’operazione per smontare la quale c’è bisogno di educazione e di istruzione. Così come è un’operazione delicata e complessa da imparare quella per far sì che non tutto ciò che viene dal mon do arabo, in primis le persone, sia immediatamente ascritto alla categoria del terrorismo. Questa è una forma di integralismo, questo è il nostro fondamentalismo. Ma che cos’è questo, se non un enorme problema culturale? E dove la trovo una soluzione a questo problema, se viene a mancare quel luogo principe dell’incontro tra diversi, dello scambio e della contaminazione, che è la scuola pubblica, la scuola di tutti? Eppure la sensazione è che questo rapporto tra scuola e società stia venendo meno nella percezione delle persone, di quelli che della scuola per primi dovrebbero fruire. Perché la scuola non è solo questione degli insegnanti, o solo dei genitori o solo degli studenti, o dei bidelli o degli amministrativi o dei dirigenti: la scuola è questione del Paese, che riguarda il futuro del nostro Paese, dell’Europa e del mondo, che riguarda la capacità del nostro Paese di stare dentro ai processi di globalizzazione portando una cultura di apertura, di convivenza, di pace, oppure una cultura impoverita, una cultura della competizione esasperata o la cultura della riconferma delle disuguaglianze esistenze e dei rapporti di potere esistenti, o la cultura dell’ingiustizia… Io credo che si tratta di ritrovare le ragioni profonde del rapporto tra scuola e società e di un patto tra scuola e società.

Ma come mai quel rapporto è venuto così clamorosamente meno?

La scuola italiana, che ha svolto una funzione fondamentale di promozione sociale, ha mostrato anche dei limiti seri, che stanno condensati in una sola cifra: quel 32,7 di giovani che la scuola espelle, prima che arrivino ad avere un diploma di scuola secondaria. Ma ci sono dati qualitativi altrettanto forti e importanti: come è nato e si è sviluppato questo profondo senso di estraneità da parte della società verso la scuola? E quei ripetuti atti di vandalismo, che gli stessi studenti producono nelle scuole che frequentano la mattina o nelle scuole che li hanno espulsi, come li vogliamo leggere, se non come una drammatica richiesta nei confronti di una istituzione che tante volte non ne ha saputo accogliere e promuovere la crescita umana, culturale e sociale.

Rifiutare la riforma Moratti significa voler conservare la scuola di oggi?

I soggetti che hanno promosso l’incontro di oggi, la giornata del 12 aprile, del 16 e 17 maggio, non sono dei conservatori e delle conservatrici rispetto al sistema scuola, vengono anzi da quelle parti di società e di scuola che da sempre si sono battute e hanno lavorato per una scuola autenticamente democratica e capace di adempiere al suo ruolo e al dettato costituzionale; che hanno sempre operato per il cambiamento della scuola capace di elaborare il cambiamento del paese e di garantire dei percorsi scolastici ed educativi che mettessero in condizione i ragazzi di esercitare la cittadinanza, a cominciare dall’esercitarla dentro la scuola per come la scuola si organizzava e proponeva le sue attività, a cominciare dalla distribuzione degli incarichi in classe, a cominciare dallo sforzo di realizzare la scuola come ricerca di percorsi significativi e capaci di collegarsi ai processi identitari dei ragazzi. Noi non siamo per una scuola statica. Noi vogliamo il cambiamento della scuola, ma il cambiamento della scuola al quale ci sta portando la riforma-controriforma o "deforma" Moratti non va certo nella direzione che ho cercato di dire prima, va anzi in direzioni opposte: nella direzione di sancire e sottolineare le differenze, soprattutto nella direzione di svuotare la scuola, di svuotarla prima di tutto di responsabilità, attraverso quel grimaldello falso e demagogico che è il protagonismo della famiglia. Le famiglie sono tante e diverse; quello che si tenta di fare con questa riforma è trasformare le famiglie in clienti, e la scuola in una azienda che eroga servizi e che dipende dalla richiesta dei clienti. Questo ammazza la progettualità educativa. Una riforma che reintroduce il voto di condotta, che è il contrario di una sana educazione, rigorosa quando serve, capace di coltivare autonomia e responsabilità; il voto di comportamento serve per espellere, per punire, per dire al ragazzo: se ce la fai bene, se no sono cavoli tuoi, noi ti buttiamo fuori. Così come il portfolio e la valutazione: non si capisce quale potrebbe essere il ruolo della scuola nel promuovere il superamento delle difficoltà dei ragazzi. E alle famiglie si dice: comandate voi, e quindi decidete voi come comporre il curricolo dei vostri figli, un po’ dentro scuola, un po’ fuori, dove volete voi; dove va a finire la qualità del progetto educativo? Si smembra, si sfalda sotto le mani. Per non dire che tutta una serie di questi percorsi dentro la scuola, già avviene che siano anche a pagamento: si salvi chi può, altro che protagonismo delle famiglie, che avrebbero invece bisogno di una scuola capace di aiutarle e sostenerle nel loro difficile compito educativo. Chi davvero fa ricerca, o chi davvero fa scuola, con le orecchie e il cuore aperto, dall’asilo nido all’università lo sa che deve fare i conti con le difficoltà delle famiglie, altro che azzerare il progetto educativo della scuola, c’è bisogno di scuole capaci di progetti educativi forti, centrati, capaci di interloquire e quando è il caso di sostenere il lavoro delle famiglie; e invece piazza pulita; non solo: ma tanto più si coltiva la deresponsabilizzazione quanto si lavora sulla professionalità docente e si decide la gerarchizzazione: questa figura del tutor, o tiutor, che bisogna dirlo all’inglese, diventa una specie di responsabile, azzerando una esperienza internazionalmente riconosciuta per la qualità della scuola elementare italiana e i livelli di apprendimento che garantisce adesso; e chi lavora nella scuola sa quanto siano importanti le funzioni di tutoraggio e di coordinamento, ma un conto è garantire il coordinamento delle attività e un altro conto è istituire una sorta di Mandrake con tutte le responsabilità, le scelte fondamentali.

E allora, che fare oggi che la riforma è legge?

Direi che questa questione della responsabilità è il nucleo centrale per il futuro delle giovani generazioni e di ciascuno: ciascun ragazzo ha bisogno di una assunzione di responsabilità da parte di tutti, per costruire sensibilità e partecipazione intorno alla scuola; quella che tra l’altro è richiesta anche per la modifica del Titolo quinto della Costituzione. In questa prospettiva, apparentemente desolata, io credo invece che ci sia lo spazio per continuare a lavorare, a lavorare bene coi ragazzi, dentro una cornice di conflittualità: coltivare e implementare l’autonomia degli istituti scolastici attraverso progetti educativi forti e capaci di interloquire con gli altri soggetti, e poi coinvolgere, costruire reti, parlare con gli altri che hanno competenza; ma cominciando dal rispettare e garantire il diritto di parola di ogni bambino e bambina, fino al parlare con tutti, anche con quelli che oggi sono fuori e non sono venuti, per coltivare questi processi di responsabilizzazione: ne sento un grandissimo bisogno. Io credo che comunque, quando si lavora in campo educativo, nella relazione educativa ci sia sempre lo spazio tra norme e realtà di fatto; ed è in quello spazio che si situa la responsabilità individuale e che consente a tutti quelli che vogliono quello spazio di libertà e responsabilità, perché questa è la nostra accezione di libertà, quella che si coniuga con la responsabilità.

Dario Missaglia: Con molta sincerità, devo dire che c’è bisogno di vedere su quali idee, su quali punti gestire una fase così decisiva, perché non funziona almeno tra di noi dire quanto sono cattivi gli altri. E invece bisogna vedere con molta concretezza cosa possiamo oggi mettere in conto, sapendo che la fase è quello che è. Certo sorprende, è sconcertante e bisognerà pur chiedersi come mai di fronte ai provvedimenti e alle iniziative di Berlinguer si aprì una grande discussione, con dissensi e consensi, manifestazioni e proteste, mentre oggi la grande coltre di silenzio che imbarazza, che sconcerta. Questo intanto è un fenomeno da capire; certo, c’è anche la sensazione che la scuola riflette una situazione più generale, di aggressione alle grandi istituzioni, dove pure registriamo una reattività sociale: si fa una grande fatica a far rientrare la scuola tra queste, e ci sarà una ragione. Io mi auguro che i risultati di questa tornata elettorale, le notizie eccellenti che stanno arrivando dai primi risultati, come alla provincia di Roma dove il centrosinistra vince al primo turno, contribuiscano a darci una spinta, una carica, a capire i processi con qualche consapevolezza in più. E però tra le consapevolezze c’è anche la durezza dello scontro, perché una delle ragioni che forse spiega questo silenzio, è che in fondo la scuola si è cullata molto in una condizione quasi di sollievo nel vedere sospesa la legge 30 (la riforma Berlinguer): io l’ho percepita nettamente, come molti compagni che fanno attività sindacale o associativa, come la conferma della certezza che la scuola è destinata a rimanere sempre così com’è. E qui abbiamo invece la convinzione profonda che questo governo non lascerà le cose come stanno, sulla scuola come sugli altri settori: questo è un governo che pensa di cambiare le cose, e lo farà fino all’ultimo giorno del suo mandato elettorale. Ma adesso la legge c’è, che si può fare?

Certo, la legge 53 esiste, è una legge della Repubblica, è stata approvata dal Parlamento, la sua legittimità istituzionale non riempie il vuoto di legittimità sociale, perché non è stata confrontata con l’opposizione né tanto meno, nel suo momento di elaborazione, con il mondo della scuola, però la legge c’è, e nel momento in cui entra in applicazione, si applica. Qui bisognerà stare molto attenti a non schiacciarsi su due posizioni, credo entrambe sbagliate: una opposizione talmente radicale da non lasciare fuori nessun segno della pratica reale: che può essere un atteggiamento che può salvare l’anima di chi la pronuncia, e però non modifica le condizioni concrete del lavoro; e l’altra, una passiva adattività: la legge c’è e quindi mi adeguo. In mezzo c’è uno spiraglio, molto delicato, molto sottile, ma c’è: è quello spazio in cui dobbiamo giocare la nostra soggettività, nell’organizzazione sindacale, nella situazione professionale, per fare in modo di evidenziare e far esplodere tutte le contraddizioni che ci sono non solo nella legge 53 ma anche nei decreti attuativi che man mano saranno varati dal governo. Cogliere queste contraddizioni, tenere aperti i processi dentro la scuola, in modo tale da poterli convogliare dentro uno scenario di nuove prospettive. Ma insieme a questo, e anche attraverso questo lavoro, c’è quello di far ripartire una nuova idea di riforma, dal basso, perché per ora ritengo che non abbiamo le condizioni per poter pesare su un governo che è intenzionalmente ostile ai temi dei diritti della persona, della democratizzazione. Noi dobbiamo ricostruire questa idea, perché noi perdiamo se pensiamo di poter sconfiggere la Moratti difendendo la scuola così com’è.

Come mai nella percezione sociale noi non riusciamo a fare della scuola uno dei grandi valori che muovono l’opinione pubblica?

Guardate che la percezione sociale sta nella scuola che non aiuta i loro figli, nella scuola distratta, nella scuola che non si interessa del destino dei ragazzi, in quel 32 per cento che perdiamo, nei duecentoquarantamila ragazzi che ogni anno la scuola espelle senza un diploma, senza una qualifica, nella disattenzione a cercare un rapporto forte con i genitori, nella chiusura della scuola verso le istituzioni locali nella ricerca di un progetto per far vivere la scuola con le risorse del territorio: la percezione sociale c’è. Quando sono state fatte delle domande molto dirette: cosa pensate degli insegnanti e delle loro retribuzioni, la risposta è stata: pensiamo che gli insegnanti, per quello che fanno, siano pagati persino troppo, e però ce n’è una parte che meriterebbe molto di più. Può sembrare una percezione banale, ma è una percezione che non cambia finché non si convince che la scuola è una di quelle istituzioni che davvero sfida il cambiamento, anche a costo di provare, di sperimentare, ma non si arrende. Allora potremo avere per la scuola la stessa reazione che si ha per l’informazione o la giustizia. Per questo è importante che socialmente si capisca che c’è una parte della scuola che nel contrastare la Moratti non rivendica la scuola di sempre, ma rivendica un cambiamento, che questa volta deve venire dal basso, perché non abbiamo alle spalle né una decisione politica né legislativa che ci può supportare. Probabilmente, nell’epoca del centrosinistra c’è stato anche un limite, ed il limite era quello di pensare al potere della norma, al fatto che una volta definite le leggi, i processi sarebbero seguiti. La realtà ci dice che invece il rapporto tra norma e processi è complesso, che bisogna partire dalla realtà, da una sperimentazione non come la intende la Moratti ma vera, basata su ipotesi scientificamente fondate, che si sottopone alla verifica dei risultati. Questo la rende socialmente apprezzabile e riconoscibile. Quindi è un lavoro difficile, perché si tratterà di vedere quali sono i vincoli che la nuova legislazione porrà al sistema, e come dentro quei vincoli poter aprire contraddizioni.

Per far questo, sarà possibile ritrovare anche un sindacato unitario?

La Cisl è stata protagonista di una vibrante protesta all’epoca della riforma Berlinguer, perché vedeva in questa idea del ciclo unico la fine della scuola così com’è, e ha poi avuto un atteggiamento di neutralità se non di consenso nei confronti della riforma Moratti perché questa si è presentata all’apparenza come una legge che per quanto riguarda la scuola elementare lasciava tranquilli: salvo poi leggere nella bozza del decreto di scuola dell’infanzia e della scuola elementare e rimanere sconvolti. Il decreto modifica radicalmente la scuola, e questo pone alla Cisl una riflessione, e questo può aprire anche una possibilità di avvicinamento. Le condizioni sono anche più generali, e riguardano il confronto che noi abbiamo da una parte con il governo e dall’altra le altre confederazioni sindacali, ma sarebbe importante una capacità di azione comune sulla scuola.