I perzichi di Papigno

C’era una volta un albero. E c’è ancora.

Intervento di Isabella Dalla Ragione

"TESORI NASCOSTI, FORSE PERDUTI, ANTICHE VARIETÀ DI FRUTTA IN UMBRIA" ERA IL TITOLO DELLA CONFERENZA DI ISABELLA DALLA RAGIONE TENUTA PRESSO LA SALA DELLA PARTECIPAZIONE DELLA PROVINCIA IL 21 GENNAIO 2003, ORGANIZZATA DAL GARDEN CLUB DI PERUGIA. NE RIPORTIAMO ALCUNI TRA I PASSAGGI PIÙ SIGNIFICATIVI.

C’era una volta un albero, e c’è ancora, "racconta" Isabella Dalla Ragione come una storia d’avventura che mette in evidenza, d’altra parte, un preciso lavoro scientifico e un appassionato impegno politico di recupero e tutela del nostro capitale naturale, nello specifico alberi da frutta. L’attività di Isabella Dalla Ragione,agronoma, e insieme a lei di suo padre Livio, è ricercare vecchie varietà locali di piante da frutta in pericolo di estinzione e salvarne il più possibile dalla totale scomparsa, incentivandone la coltivazione nei luoghi di origine e collocandole in protezione e tutela, e coltivazione secondo sistemi tradizionali, nel Museo Vivente di S.Lorenzo di Lerchi , sede dell’Associazione Archeologia Arborea (di cui si diventa soci adottando una pianta). Qui è raccolta, con un lavoro che dura da 25 anni, una ricca collezione di circa 350 piante di varie specie: decine di varietà di meli peri susini peschi ciliegi fichi mandorli, oltre che esemplari di specie ormai poco utilizzate come il sorbo, il nespolo, il corniolo, il melo, il cotogno. Perché l’albero da frutta viene considerato un Bene Culturale dalla cui scomparsa deriva la perdita di molte specie arboree e fruttifere ma anche di sapori e di gusti, e soprattutto la dispersione di saperi e di saper fare; i frutti sono legati alla territorialità e alla cultura della gente, sono osservati come indicatori della salute di un territorio e documenti del sapere e delle conoscenze di un gruppo, valori di memorie e di identità.

"Andiamo alla ricerca di alberi da frutta abbandonati, dimenticati, che stanno per seccarsi definitivamente o stanno per essere tagliati, alberi orfani di memoria - nessuno quasi se li ricorda più - orfani di cura, perché legati alla vita del contadino, mestiere scomparso per lo meno nella accezione tradizionale, orfani di altri alberi simili o della stessa specie. Sono piante isolate, disperse nell’abbandono delle zone di coltivazione e dalla scomparsa dell’agricoltura di colture tradizionali. Molte specie sono scomparse quando i mezzadri, alla fine della mezzadria, bruciarono e distrussero le coltivazioni come rivalsa contro i padroni. Spesso si arriva tardi a salvarle perché le troviamo secche o tagliate e non c’è biotecnologia che ridia vita a una pianta morta. Alcune le abbiamo prese appena in tempo"per una gemma".

C’è anche da dire che in Umbria la vite e l’ulivo sono le piante privilegiate in agricoltura, gli alberi da frutta sono considerati piante minori, li troviamo spesso come tutori delle viti, per esempio. Alcuni così contorti e sofferti "a furia di vivere"…

Gli alberi da frutta, oltre alla produzione di frutta per alimentazione, avevano più funzioni: per l’ombra; per il legno: a Gualdo Tadino era famoso il pero con cui si facevano le madie, con il fico si facevano gli zoccoli per i bambini; segnavano i confini tra i poderi, erano un luogo di incontro per la gente di campagna, molti toponimi derivano dai nomi degli alberi. Segnavano la vita degli uomini, i miti dei luoghi, le stagioni, gli eventi della vita sociale, per esempio le fiere agricole si tenevano nel momento in cui erano maturi i frutti da mettere in vendita. Entravano nel simbolico e nell’immaginario del pensiero contadino e non solo, nel linguaggio dei proverbi e dei detti locali, nei giochi: "melo pero dimme ‘l vero dimme la santa verità…."; "col tempo e co’ la pula anche la sorba se matura". Molti i modi di collocarli: alcuni alberi si piantavano vicino a casa per un valore simbolico o per ombreggiare le aie e le concimaie, altri ai margini delle strade per non rovinare i campi che avevano bisogno di sole aperto.

Le varietà erano numerose perché ogni zona aveva le proprie piante e ogni stagione la propria frutta in abbondanza,ma le piante avevano le gambe e si spostavano da un luogo ad un altro come scambio e dono tra famiglie e vicini, per esempio al seguito delle spose che andando a vivere in altro luogo portavano con loro i semi e le piante di casa loro. Era un ottimo sistema di diffusione di varietà dei semi!

Anche nel raccolto c’era una modalità rituale: il contadino lasciava almeno tre frutti sulla pianta: uno per il sole, uno per la terra e uno come ricompensa per la pianta che aveva così duramente lavorato; che poi era un modo buono per conservare la specie".

Isabella Dalla Ragione fa vedere numerose diapositive di frutti colorati, dai nomi suggestivi ed evocativi dell’origine o del profumo o della forma o dell’appartenenza: la mela rosona dall’odore di rosa, la roggia perché rugginosa, la pera giugnina che matura a giugno,la pera ghiacciola, la mela sona che ha l’ovario lungo e se la muovi risuonano i semi dentro, la mela limoncella, la musa dalla forma a muso di vacca,la mela panaia "buona come il pane", originaria della Toscana, ha lo stesso nome del cesto che viene usato a Norcia: che sia la storia di una migrazione di frutta o di cesti o di nomi?

La mela rosa in pietra appena colta era durissima e si conservava a lungo fino a maturazione, la pera briaca è rossa al centro, il fico di s. Pietro è giallino, la mela rotolona chiamata così, forse, perché cresce su un dirupo scosceso e quando le mele cadono rotolano in basso, o perché è bella grossa rotonda; la mela conventina ancora coltivata tra Gubbio e Gualdo Tadino; la mela bianchina dalla buccia dura e resistente, si svuotava e dentro si metteva della cera da ardere come profumo.

Attenti che la mela Smith è australiana! Nei trattati di frutticoltura del secolo scorso si contavano circa 150 varietà di melo, oggi il 75% della produzione si basa solo su tre varietà di mele!

"I nostri luoghi di ricerca sono l’Alta Valle del Tevere, nei comuni di Città di Castello e Monte S. Maria Tiberina, Pieve S. Stefano, Gubbio, Gualdo Tadino, cioè un’ampia zona di incrocio tra l’Umbria, la Toscana, le Marche e la Romagna, possibili strade di viaggio dei frutti. D’altra parte questa zona è stata luogo di mezzadria e le piante erano importanti per la necessità di disporre nel podere di gran parte dei prodotti base dell’alimentazione, per una economia di autosufficienza alimentare.

Per le nostre ricerche e ritrovamenti ci serviamo di tutte le segnalazioni anche vaghe che ci arrivano, sottoposte quindi ad un accurato lavoro di controllo e verifica. Abbiamo le nostre fonti di informazioni, indicazioni che ci vengono da poderi abbandonati, da vecchi agricoltori, come Angelo di Casalini, uno dei nostri maggiori testimoni, intervistato quando aveva 90 anni. Ci serviamo quindi della memoria orale che definirei interrotta perché non tramandata ai più giovani e perché gli stessi vecchi contadini distorcono spesso il passato o non lo vogliono ricordare per rimuovere una memoria ingombrante di vita faticosa .

Angelo da Casalini ci ha fatto conoscere la mela del castagno che suo nonno trovò dentro un tronco cavo (il "bugione") di un vecchio castagno, dopo un tentativo di trasformarlo in pianta "seria" con un innesto fallito, lasciò che nascessero le originarie mele del castagno di colore verde e di polpa bianca e croccante che si conservavano da ottobre anche fino a pasqua nel fruttaio, da ricordare perché luogo tradizionale di conservazione della frutta, scelto con accuratezza di pietra luce e umidità giuste, e senz’altro migliore del frigorifero.

Un altro luogo privilegiato per la raccolta di semi e racconti sono i conventi delle suore che coltivavano gli orti per la loro autonomia alimentare, orti molto ricchi di varietà frutticole, infatti le suore non mangiavano carne che andava ai conventi maschili, tutt’al più mangiavano pesce, ma la loro alimentazione era fondamentalmente vegetale, quindi l’orto era una risorsa alimentare interna essenziale e produttiva. Il Convento delle Clarisse di S.Veronica di Città di Castello (oggi ci sono solo quattro suore sugli 80 anni, meravigliate della nostra ricerca presso il loro orto) si è rivelato una vera banca genetica: vi abbiamo trovato uva, ciliegi, peri, meli, fichi, la mela roggia a maturazione invernale. Qui c’era il pero di S. Veronica vecchio di 270 anni,un grande albero contorto e morente di cui solo qualche ramo era produttivo.

Negli archivi consultiamo libri e manuali di agricoltura per studiare le vecchie varietà ,come la lista del Pomario del Principe Bufalini di S.Giustino da cui abbiamo tratto molte notizie, ma troviamo grandi difficoltà per identificare le piante nominate; per esempio non abbiamo rintracciato una specie di mela chiamata "Cardinale di Roma " o "Duca di Firenze" che devono il nome forse a qualcuno che ha fatto un viaggio in quelle città; abbiamo, però, ritrovato la mela rossa incarnata una ventina d’anni fa, dalla rossa polpa,la mela striata con striature rosee su fondo giallo.

In un libro del musicista Archimede Montanini abbiamo trovato la pesca carota e la cilegia di Cantiano, grande, di colore chiaro.

Abbiamo recentemente ritrovato la pesca di Papigno (a Terni), che ci era stata segnalata in un podere nel 1991 nella zona abbandonata intorno alle fabbriche dismesse.

Ha avuto così origine un interessante percorso di archeologia industriale e archeologia arborea, infatti la sorte della Pesca è legata alla storia della industrializzazione della zona, che negli anni ’60 fu abbandonata per inquinamento da polveri e gas combusti che danneggiavano le produzioni agricole. Della Pesca di Papigno oggi è rimasta una memoria vaga e confusa, nonostante siano passati solo pochi decenni dalla fine della sua coltivazione. Ma a cominciare da Plinio che ne parla con ammirazione, i perzichi di Papigno erano rinomati sin dal ‘600 e citati in testi d’arte di viaggi e di letteratura come era lodata tutta la valle per la sua bellezza e fertilità: "Frutti di una non ordinaria grossezza" li dichiara il Riccardi nei primi anni dell’800" e Alinda Bonacci Brunamonti li dipinge con le parole "e il Sol d’agosto imporpora la gota lanuginosa delle pesche d’oro", e ancora la testimonianza entusiasta del Vescovo di Terni Vincenzo Tizzoni nel 1843 "le pesche di Papigno pesavano ognuna fino a venti once romane".

Nel 1901 cominciò l’opera di industrializzazione della zona e il degrado da inquinamento delle produzioni agricole nei campi, negli orti e nei frutteti che colpì anche il famoso pesco. Bisogna anche aggiungere un altro fattore negativo: negli anni ’30/’40 arrivarono in Italia una grande varietà di piante dall’estero più produttive che hanno soppiantato quelle originarie e portato all’abbandono di tutto il patrimonio delle varietà locali selezionate nei tempi, destino comune a tutte le nostre piante sostituite via via da varietà precoci e di provenienza vivaistica.

Le testimonianze sulle ultime apparizioni dei "perzichi"nella zona sono discordanti. La signora Deide, classe 1918, di Vigne di Narni che per tutta la vita ha venduto frutta e verdura ricorda che la pesca di Papigno era così pregiata (grande di colore giallo intenso con striature rosse vicino al seme) che lei la comprava per darla ai figli e non la vendeva. Se ne trovano ultime citazioni negli anni 19440/42 in alcuni almanacchi e recensioni agricole e sembra che fino agli anni ’60 qualche frutto poteva trovarsi in vendita al mercato di Terni.

Attualmente se ne trova qualche esemplare tra le rovine industriali o in qualche orto privato, i pochi agricoltori rimasti non la coltivano più da anni, anzi neppure la conoscono. E se una pianta non è riconosciuta dalle persone che vivono e lavorano nello stesso territorio d’origine forse non la possiamo più salvare come varietà locale. E forse quella da noi salvata resterà l’unica pianta esemplare.

Ma tale considerazione vale anche per altre piante da frutto: oggi nessuno coltiva più il mandorlo perché difficile da raccogliere, una volta c’erano 700 varietà di mandorlo, adesso ce ne sono 13 di cui solo 2 italiane, ma non si perde solo un albero, ma un sapore, un cibo tradizionale, per esempio gli amaretti fatti con le mandorle amare o alcuni tipi di confetti. Come non si piantano più i nespoli che sono belli anche come piante decorative, il sorbo o le mele cotogne.

E pensare che Marco Bussato da Ravenna (1781) nel suo "Giardino d’agricoltura" diceva: "…gli alberi fruttiferi , i quali con le loro ombre amene, e fiori odorosi, e frutti al gusto soavissimi, e delicatissimi rallegrano,consolano, e contentano grandemente, così gli animi, come i corpi nostri…."

 

In libreria

Isabella e Livio Dalla Ragione, Archeologia arborea. Diario di due cercatori di piante, ali&no Editrice, 1997, di cui a marzo uscirà l’edizione aggiornata ed ampliata.

Isabella Dalla Ragione e Andrea Giardi, I pregiati perzichi di Papigno, Collana "Conoscere e sapere", a cura della Provincia di Terni, 2002