Il “capitalismo automobilistico”

Marco D’Eramo (Roma, 1947), laureato in Fisica a Roma, è in seguito stato allievo di Pierre Bouridieu alla Ecole Pratique des Hautes Etudes di Parigi. E’ stato corrispondente di “Paese Sera”, ha collaborato a lungo con “La Repubblica” e “L’Espresso”, poi è passato al “Manifesto”, dove è stato prima caposervizio degli Esteri e poi dell’Economia internazionale.

Secondo lei, la città unisce o divide?

In primo luogo è importante fare una distinzione, dal momento che solitamente parliamo indifferentemente di città e metropoli. Per esempio, Firenze è una città ma non una metropoli; Los Angeles è una metropoli, ma non una città. 

La metropoli nasce con il mondo moderno, con la rivoluzione delle comunicazioni. La città si è configurata attraverso alcune rivoluzioni: quella del tram ha permesso di superare grandi distanze a basso prezzo e di mettere in comunicazione le periferie operaie/proletarie con il resto della città.

Comunicazione e interazione però, al tempo stesso facilitano e creano problemi.

In che senso creano problemi?

Quando non c’erano i mezzi di trasporto i diversi ceti sociali erano più in contatto tra loro (per esempio, i servi abitavano vicino ai padroni per ragioni di comodità). Con l’avvento del tram, si è prodotta paradossalmente una segregazione sociale, le distanze sono aumentate, gli ambienti sociali si sono omogeneizzati e depurati. Incontrarsi è diventato, ripeto, paradossalmente, più difficile.

La città è segregata nello spazio e nel tempo: ha assistito alla rivoluzione della comunicazione, ma le tecnologie comunicative che la modernità ha messo a disposizione spingono all’individualismo e alla staticità, tendendo a  ostacolare l’incontro con gli altri.

La rapidità e la facilità delle comunicazioni e dei trasporti rendono l'assimilazione e l'integrazione sempre più difficili e quasi impossibili facendo della metropoli un mosaico di comunità transnazionali.
Il "capitalismo automobilistico" decentra, e scentra, nel comando, nell'organizzazione del lavoro, nella logistica, nella vita quotidiana degli umani, nell'idea che ci facciamo della civiltà. Automobile e camion collegano tra loro zone a densità così bassa che resterebbero isolate in un mondo ferroviario. Il capitalismo a quattro ruote stravolge la nostra secolare immagine di città, consente che le periferie siano collegate tra loro, mentre prima erano connesse solo dal centro per il centro e attraverso il centro. Fa sì che sia possibile un'area metropolitana senza metropoli, senza centro città, e che la periferia non sia più periferia di nessun centro, ma sia autocentrata. In questo nuovo spazio che non è più città e non è più campagna, la massima aspirazione, il fine dell'umano vivere è possedere e abitare una villetta unifamiliare con garage, circondata da un prato che ti separa più di un muro dal tuo vicino uguale a te con il suo prato e il suo garage. E’ così esasperata la segregazione di razza e di classe, che spinge questa società verso l'implosione, la disintegrazione interna.

(Annalisa Perrone)