Alla scuola di Ulisse

L’avventura e il viaggio per uscire dalla violenza delle banlieu

Intervista a Joseph Rossetto

 

Vuoi descrivere la situazione della tua scuola?

La mia scuola si trova a Bobigny, è una scuola che accoglie ragazzi di una eterogeneità molto grande, e molti figli di immigranti, e dunque sono ragazzi di seconda generazione, all’incirca sessanta nazionalità diverse, in una città che è un po’ un ghetto, come la Seine-St-Dénis: vi si trovano molti ragazzi che mostrano difficoltà psicologiche, sociali, e anche problemi di conoscenza. Sono nati in Francia, sono cittadini francesi, ma il problema che si crea è l’allontanamento dalla cultura, dalla tradizione e dalla lingua materna, l’oblio di tutta la storia familiare, senza del resto poter entrare nella cultura europea: una cosa che io chiamo una specie di terra sconosciuta. Ma questo non accade solo ai figli dei migranti, questo è anche il caso dei ragazzi di origine francese, è un po’ il fenomeno del mondo d’oggi, questa perdita della memoria, della cultura, della storia, che sono poi l’identità di una nazione. Questa insicurezza culturale si raddoppia in una insicurezza nella lingua: sono ragazzi che si trovano nella incapacità di esprimere, di dire, e allora preferiscono il corpo: usano una lingua, la lingua delle banlieu, incomprensibile agli altri, fondata sul rapporto di forza e sulla violenza. È una lingua parallela, fatta di frammenti di francese, di arabo, di argot, un agglomerato: questa lingua li allontana dalla scuola e dagli apprendimenti scolastici.

È la lingua di tutti i giovani, o solo dei figli di migranti?

È la lingua dei giovani di banlieu, di tutti i giovani di banlieu.

Pensa che i giovani siano diventati protagonisti, manifestando contro il governo per la legge sul primo impiego?

Però questi giovani non hanno preso parte alle manifestazioni contro la legge del Cpe, quelli erano soprattutto studenti, non vanno confusi con quei giovani della banlieu che sono i casseurs, che in quelle manifestazioni hanno approfittato per rompere, sfasciare; hanno una specie di incapacità al pensiero, alla riflessione, e quello che gli interessa è distruggere lo spazio locale. Sono ragazzi esclusi, che la scuola ha escluso, perché in Francia, come dappertutto ma specialmente in Francia, la scuola esclude molto. La scuola vede uscire dal sistema un gran numero di ragazzi che non hanno niente, non hanno la possibilità di avere un lavoro, sono nell’incapacità di parlare e di leggere correttamente e di avere accesso a una formazione: dunque questi esclusi non hanno partecipato al movimento, se non in quanto casseurs. Ma hanno partecipato ai disordini di novembre, causando al distruzione del proprio territorio.

Hanno partecipato anche i ragazzi di 13, 14 anni?

Certamente. Hanno cercato la distruzione del proprio territorio, dei luoghi da cui sono stati esclusi: la scuola, gli spazi sociali, la biblioteca, sono distrutti, con grande barbarie. Evidentemente bisogna inventare una scuola, delle situazioni che permettano a questi ragazzi di non perdersi, ma di orientarsi in uno spazio di costruzione, di invenzione, di creazione, in modo da integrarsi.

Qual è la situazione delle famiglie di questi ragazzi?

Questo è importante, perché a novembre è avvenuta la stigmatizzazione della famiglia. Si è persino evocata la poligamia come responsabile della crisi delle banlieu, in sostanza si sono accusati i genitori di essere cattivi genitori: questo è falso. Questi genitori sono molto umili, sono ben integrati, sono venuti in Francia per lavorare e sono stati umiliati, non è stata riconosciuta la loro cultura; e questi ragazzi hanno un’altra cultura, che è la cultura della distruzione. I genitori hanno a cuore l’avvenire dei loro figli, del loro successo, ma i ragazzi sono separati dalla loro storia, dalla loro memoria, e nello stesso tempo si sentono responsabili di questa storia e memoria, che possono ritrovare in modelli quali la religione fondamentalista, modelli e mezzi indiretti che i genitori neanche condividono più. Ecco allora che delle ragazze moderne desiderano portare il velo per ritrovare la cultura dei genitori, mentre i genitori non ne hanno affatto voglia.

Questi ragazzi disprezzano la loro famiglia?

No, ne hanno vergogna. Hanno vergogna del padre che rientra a casa la sera e non ha niente.  Non vogliono essere come loro; ho sentito ragazzi che dicevano che i genitori puzzavano di vergogna: perché in effetti questi genitori sono gente che ha sofferto: essi non ne vogliono più sapere. Ma nello stesso tempo, questi giovani non sono nella società.

Vuoi parlare del tuo lavoro con loro?

Noi abbiamo fatto là quello che si potrebbe fare anche qui: una scuola per ragazzi con insuccesso grave. Noi siamo partiti dalla storia e dalla memoria della famiglia, e anche sullo scritto, sulla poesia, per ritrovare un linguaggio e mettere i ragazzi nell’esperienza della scrittura e del rapporto con sé attraverso la scrittura. Una esperienza forte, che dura un anno, e questo lavoro di ricerca e di scrittura è tradotto nel linguaggio del copro, attraverso la pratica della danza contemporanea, del teatro, del circo. Il corpo è molto importante a scuola: la scuola tiene conto di ragazzi che crescono nel corpo; con il corpo si può imparare. Quindi, c’è la nozione di scrittura dell’avventura: per es., una classe quest’anno ha creato l’Odissea, una nuova storia di Ulisse: una Odissea contemporanea che racconta la storia di Ulisse oggi che si confronta con i problemi del mondo d’oggi. Dunque, danza, scrittura, teatro, viaggio: sono stati in Grecia a Santorini, a vivere in barca la storia di Ulisse che stanno scrivendo; la vita, nel senso che incontrano una scuola arrogante, Ulisse incontra un dittatore che vuol sopprimere l’arte e lo caccia da Atene con i suoi compagni poeti e artisti, e va a vivere in un’isola, Naxos, Paros. Il dittatore vuol sopprimere la cultura, la poesia, la lingua, la memoria del mondo: Ulisse si rivolta con il popolo; e dunque abbiamo scrittura, teatro, viaggio, e in seguito spettacolo: il cinema. Una avventura. Dunque è una scuola dell’esperienza: l’esperienza del viaggio, che trasforma i ragazzi e li rimette nel senso della lingua, del pensiero, e della riflessione su chi sono e su quello che vivono. È anche una scuola della parola, nel senso che la parola che si usa con i ragazzi dev’essere una parola che li riconosca per quello che sono, non una parola insultante: questi ragazzi sono stati molto maltrattati, per cui a scuola ci sono dei punti d’ascolto in cui loro possono venire e dire delle cose. Così sono stati creati molti percorsi, per cui i ragazzi che hanno dei problemi possono fare altre cose: un po’ come fa Marco Rossi Doria a Napoli, con cui ho lavorato.

Quindi è un lavoro di ricerca sulla nostra posizione in classe, perché per cambiare la scuola bisogna cambiare la posizione dell’insegnante in classe. Guarda, quando un babbo insegna al figlio ad andare in bici, tiene il bambino e lo spinge: e il bambino continua da solo perché sa che suo padre lo guarda. La posizione in classe dell’insegnante è la stessa: deve spingere il ragazzo a creare, ad esprimersi.

Trovi che ci siano situazioni simili tra Napoli e la tua città?

Si, ci sono degli incroci, per i ragazzi che sono esclusi, che hanno vissuto delle ferite: sono ragazzi maltrattati, e vengo a scuola con questa storia: la scuola non li può contenere, non possono rimanere in classe. Dunque bisogna uscire dalla classe per fare con loro altre cose.

E ci sono anche delle differenze?

Sicuro: Napoli è un’identità, i ragazzi di Napoli amano Napoli, si riconoscono in Napoli; invece i ragazzi di Bobigny sono in un territorio che in francese chiamiamo la cité, che non è una città ma un insieme di cinque edifici, cinque torri: un territorio chiuso, e bisogna assolutamente aprire la scuola sul mondo e sulla cultura del mondo a questi ragazzi, che vengono da tutto il mondo ma sono chiusi nella cité.