A margine, magari di sbieco

Una conversazione tra Walter Cremonte e Brunella Bruschi

 

Brunella: Il libro di Walter Cremonte, A margine (ed. Crace, 2005) è uno scrigno preziosissimo di riflessioni non comuni su poeti che mi sono molto cari (da Leopardi a Saba, a Penna, Caproni, Pusterla, Luzi, D’Elia, Fortini) sulla poesia e sulla politica in relazione ad essa, nello scenario di una “bassa stagione” come i tempi bui che siamo chiamati a vivere. si tratta di una raccolta di articoli pubblicati su “Micropolis”, tra il 2001 e il 2004. Incontrando l’autore, gli chiedo di raccontarci la genesi del titolo, che ha una continuità con l’immagine in copertina e che, tuttavia , si può comprendere con sufficiente chiarezza alla lettura dei testi.

Walter: In copertina c'è una fotografia di Thomas Clocchiatti che riprende, in campo lungo, la Via Sandro Penna a Perugia: uno stradone della estrema periferia industriale che finisce in una specie di campagna. Intitolandogli quella via, la città di Perugia ha inteso onorare il suo più grande poeta (nato, si ricorderà, a Porta Sole, in pieno centro), letteralmente ponendolo “ai margini”. Eppure nell’articolo che ne parla indico senza ironia proprio quello come il “luogo esatto” per leggere le poesie di Penna: volevo dire che dobbiamo accettare senza troppi lamenti la marginalità della poesia nel sistema della comunicazione, come un dato non per forza negativo, perché questa condizione permette forse un punto di vista diverso da quello consueto: si può vedere, magari di sbieco, qualcosa che altrimenti resta fuori dal campo visivo e ascoltare qualcosa che altrimenti rimane soffocato dal rumore, dagli “eventi”. Poi, naturalmente, ci si può dispiacere del fatto che tanti bei libri di poesia, anche qui a Perugia, restino privi di ascolto.

Brunella: Mi trovavo qualche giorno fa in un dibattito relativo a Sandro Penna e alla sua poesia, e di fronte all’affermazione che in fondo questo poeta è stato un uomo che della sua vita non ha saputo fare molto, sono intervenuta a sostenere la grandezza della sua opera, il valore di “salvezza” che ne possiamo trarre, per quella tenerezza e quella scontrosità dolorosa dei suoi versi, per quel silenzio eloquente che attraversa la sua parola. Tu sei d’accordo sulla sua grandezza e sui motivi che lo rendono tale?

Walter: Sono d’accordissimo con te, Sandro Penna dobbiamo tenercelo caro. Anche se (pur avendo scritto che i suoi versi “possono salvarci”) non penso che la poesia, in generale, “salvi la vita”: ci può aiutare, mentre credo che dobbiamo contare su altro per sconfiggere la guerra, 1’oppressione eccetera.

Brunella: Che l’ossimoro, come tante altre figure retoriche, sia una “truffa” poetica o un effetto speciale, lo fa pensare l’uso frequente che si fa di questo (e di analoghi termini tecnici) nel linguaggio massmediale, che in questi casi si paluda di una forbitezza che non gli appartiene, poiché ne stravolge il valore profondo di interazione semantica dei due termini contrapposti. Così si arriva a slogan aberranti come “le bombe intelligenti” o, appunto, “la guerra umanitaria”. Come difenderci da questa e da altre banalizzazioni?

Walter: Ho iniziato queste riflessioni proprio partendo dall’orrore per un’espressione come “guerra umanitaria” e dalla rabbia di vederla definita dappertutto come ossimoro. No, l’ossimoro in poesia è una cosa seria, tra le più serie e capaci di produrre significato partendo dalla lingua comune, dalla lingua di tutti; per questo tocca in primo luogo ai poeti “salvaguardarlo” dagli attacchi banalizzanti del linguaggio massmediale. Come farlo? Direi: scrivendo belle poesie, giustificando così (e non con proclami) la specialità che la poesia ha di dire cose vere. Vorrei solo aggiungere una cosa ovvia, ma che mi preme molto: naturalmente l’orrore per l’uso truffaldino dell'espressione “guerra umanitaria” è nulla rispetto all’orrore per la guerra “umanitaria” stessa.

Brunella: Sono d’accordo con te che “Il seme del piangere” sia l’opera poetica più bella del ‘900 e che il suo autore, Giorgio Caproni, sia tra i massimi del nostro tempo. Non credi che per aver raggiunto i vertici della poesia con la grazia essenziale e la commozione di questa poetica “fine e popolare” de “Il seme del piangere”, Caproni abbia saputo creare i versi de “Il muro della terra”, de “Il franco cacciatore” e de “Il conte di Kevenhuller”, cioè sia stato in grado di scarnificare fino alle estreme conseguenze, fino all’essenzialità assoluta, la parola poetica?

Walter: Hai ragione, e credo che il discorso valga anche all’inverso: la grazia irripetibile del “Seme del piangere” è per me la garanzia che l’assoluto negativo, in crescendo nelle grandissime opere che citi, non diventa mai il nichilismo parassitario che si accampa nel vuoto dell’epoca (c'è sempre l’“anima” di Caproni: Livorno, il vento, Annina...). Per questo credo che Caproni sia il più grande della seconda metà del secolo.

Brunella: Mi è piaciuto molto l’articolo in cui accosti una citazione di Luigi Pintor ed una di Giacomo Leopardi per definire il significato del dolore e demistificare la falsa coscienza, i luoghi comuni del tempo, per lasciare al dolore solo la sua motivazione di penosa necessità senza consolazione alcuna. E’ dunque possibile nella scrittura ricercare le basi di una nuova possibile morale concreta?

Walter: A Luigi Pintor sono legatissimo, la sua frase che cito (“Non c'è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi”) vorrei vederla scritta dappertutto. L’accostamento che ho fatto a Leopardi è proprio nel senso della ricerca di una morale solidale concreta (perché nasce dalla coscienza del male, del dolore) ancora possibile. Tu dici: “E’ dunque possibile...?”. Semplicemente: deve essere possibile.

Brunella: Non conoscevo o non ricordavo la bellissima poesia di Giovanni Giudici “Stalinista”, tratta da “Prove del teatro” dell’89, che mi colpisce profondamente perché ho vissuto e vivo spesso questo sentimento dell’appartenenza di cui tu parli. Non è certo una captatio benevolentiae, ma il desiderio di sentirsi meno soli. Cosa pensi della possibilità che nella sinistra si possano trovare delle convergenze significative, oltre a quelle già esistenti?

Walter: II ricordo della poesia “Stalinista” nasce da una frequentazione con il mio amico Salvatore Lo Leggio, con cui credo di condividere la condanna dello stalinismo e, insieme, l’affetto e la riconoscenza per chi è stato (o ha creduto di essere) stalinista; liberandoci dal nazi­fascismo, che non è un piccolo dettaglio. Il mio commento a quella poesia di Giudici nasce da una situazione un po’ scherzosa (scherzo un po’ come il “macchinista” con cui Giudici dialoga), ma per quanto riguarda le “convergenze” di cui mi chiedi penso che la sinistra debba fare i conti fino in fondo, senza condiscendenze, con gli errori e gli orrori della propria storia (della nostra storia).

Brunella: Amo molto anch’io Fabio Pusterla, che oltre alla peculiarità della sua poetica, mostra, conoscendolo personalmente, anche un animo squisito e un sentire profondo. Pensi, dunque, che un messaggio positivo per costruire un mondo migliore possa nascere anche da una poesia “lirica” come tu la definisci e non soltanto dalla poesia civile?

Walter: Mi fa piacere che chiudiamo questa conversazione nominando Fabio Pusterla, che considero tra i poeti migliori della sua generazione. Nel libro ho definito “radicalmente lirico” questo poeta, tentando di ricordare una considerazione di Adorno (ma non ne sono sicurissimo) sulla poesia lirico-soggettiva come espressione del “pensiero negativo” rispetto allo stato di cose esistente, che per il solo fatto di esserci contesta, smascherandola, la presunta razionalità del dominio. E’ come se il poeta in ogni suo atto, in ogni sua parola, sottintendesse un suo “non ci sto”. Anche tu, cara Brunella, quando scrivi versi come “dire di una rosa / la cosa che la misura” indichi una necessità (conoscitiva e morale) per il poeta di non fermarsi, di non accettare la falsa coscienza che ci viene imposta. Vedi che i tuoi versi vanno al di là dell’“incanto” lirico (senza perderlo) e funzionano (lasciami usare questa brutta parola) più che i proclami così detti civili.