Con il riso, l’utopia è possibile

Intervista a Moni Ovadia

Di Valeria Cerasoli

Il pretesto dell’invito a presiedere la serata è stato la presentazione del suo ultimo libro,”Vai a te stesso”. Il vero motivo era invece la voglia di tanti di conoscerlo,finalmente,dopo essere stati a lungo affascinati dalle sue opere  e della sua personalità,intrecciate in  un tutt’uno come lui stesso racconta. ”Il dilemma-dice - è se fare arte nella vita o fare della vita un’arte” . Ed ecco come,in un anonimo mercoledì di gennaio,Moni Ovadia sbarca a Narni.

L’idea dell’incontro con il “maestro”,come qualcuno lo chiama, viene all’Associazione Librarsi che lo conosce non solo come scrittore ma prima come attore teatrale e come musicante.Si perché Ovadia non  pone confini tra le libere espressioni della sua arte: fin da ragazzo occupandosi di musica etnica e popolare,dagli anni ‘80 dedicandosi al teatro e fondando una propria compagnia,la Moni Ovadia Theater Orchestra.

Bulgaro di nascita,appartiene alla cultura sefardita (ceppo ebraico vissuto in  Spagna fino al 1492  e cacciato dai territori della Corona con l’accusa di deicidio).Dice tuttavia di interpretare la cultura ashkenazita e cioè la tradizione dell’Est Europa,di cui rivive il pathos,la storia e la lingua yddish,commistione di ebraico e germanico e segno di riconoscimento dell’emigrante ebreo di una volta.

La sua formazione intellettuale risente profondamente anche  del pensiero contemporaneo ed è influenzato dalla variegata eredità del ‘900. Aderisce da ragazzo al marxismo,si innamora del jazz e della voce di Louis Armstrong,del vertiginoso pessimismo di Kafka ma anche della speranza che infiamma il ’68,vista  però con il distacco anti-ideologico proprio del suo pensiero.

Ovadia nasce nel ’46,quando la guerra mondiale si è appena conclusa così come lo sterminio del suo popolo. E pur non avendola vissuta direttamente,le sue opere ne sono una testimonianza continua raccontando il passato ma guardando la tragedia attuale in Israele. “Quando qualcuno mi incontra-mi ha confessato durante l’intervista- la prima domanda che mi rivolge è proprio ciò che penso della situazione in Medio Oriente e di come io mi ponga,in quanto ebreo,rispetto agli israeliani di oggi.Ebbene io rispondo sempre,da pacifista convinto quale sono nonchè sostenitore di Emergency,che i diritti dei palestinesi sono stati violati  non dal  popolo ebreo ma dal governo Sharon e dalla sua politica militarista.Il rischio di affermazioni superficiali,opera soprattutto dei mass-media risiede nel seminare nuovamente odio razziale,pregiudizio antisemita e presentare al mondo la mia gente come carnefice.Il vero razzismo risiede in Europa e ne è la piaga purulenta mai guarita.

Moni Ovadia è un personaggio travolgente.Già dopo le prime battute della nostra conversazione aveva  già dissertato di politica internazionale e di filosofia,di cultura yddish e di religione.

 Nella sua arte lei compie dunque un viaggio secolare nella cultura ebraica,ma quanta parte ha la religione in questo universo di simboli?Lei crede in Dio?

“Io non sono religioso ma credo nel divino presente in ogni uomo e nelle sue relazioni con il  prossimo.Credo nella  santificazione dell’esistenza fatta di gesti quotidiani ricchi di sacralità. Del resto proprio su questo si fonda l’Ebraismo:è un modello di vita più che una religione, una filosofia che vuole rendere l’uomo libero e attivo.Ricordiamoci che il primo concetto di libertà ed uguaglianza proviene dalla Torah e non dalla Rivoluzione francese.Questo messaggio si intreccia nei secoli  con quello cristiano dando vita ad una benedizione unica per l’umanità rintracciabile nella giustizia sociale.

Pensa che questi valori di fraternità possano essere oggi il nuovo punto di contatto tra le grandi religioni monoteiste?

Credo nella piena risonanza tra alcuni principi che accomunano Islamismo, Ebraismo e Cristianesimo,almeno nella loro versione più antica. Le diverse interpretazioni, e a

volte strumentalizzazioni,date nel corso del tempo hanno allontanato le grandi religioni tra loro ma il messaggio di fondo rimane:non ci si può professare monoteisti senza amare lo straniero ed accettare la differenza.

Parliamo della sua arte sotto una diversa angolazione. Nel suo primo libro “Speriamo che tenga” parla di se stesso come di un “saltimbanco sospeso tra Cielo e Terra”,a volte buttato giù dalle piccole o grandi nevrosi che costellano la vita. Lei pensa che la scelta di essere artista sia una sorta di “terapia catartica” contro il disagio interiore?

Certamente!L’arte è espressione di complessità e di mondi interiori sommersi,spesso di sofferenza. Credo che il travaglio esistenziale abbia una funzione importante nella vita,metta in costante rapporto con se stessi, arricchisca l’anima di sfumature,ti tenga sempre vigile. Colui che non conosce conflitto con sé ed è sempre sicuro può smarrirsi di fronte ad una situazione paradossale e perdere la direzione. L’insicuro invece è abituato a navigare in mare burrascoso,sa gestirlo. Qui sta il suo equilibrio. E poi con gli anni ci si impara a curare con l’ironia, che garantisco sa fare miracoli.

Pensando al collegamento tra ironia e cultura ebraica viene subito in mente Woody Allen. Si può dire allora che questa caratteristica appartenga  alla vostra tradizione in generale?

L’ironia,come capacità di smascherare la finzione, non nasce nell’Ebraismo ma nell’Antica Grecia di Socrate. Piuttosto la cultura ebraica parla di umorismo,arte simile  all’ironia del Romanticismo. Potentissimo strumento cognitivo sa  demolire idolatrie e ideologie,riporta  l’uomo alla realtà e lo fa vivere con un sano distacco dalle cose. Ridere vuol dire rompere con l’evidenza,superare  l’idea costituita  e capovolgere l’ottica. Il riso sfida la realtà e crede che l’utopia sia ancora possibile.