La resistenza della memoria

Tre generazioni a confronto

Tavola rotonda: 15 dicembre 2004, Sala San Tommaso della I Circoscrizione

 

Renzo Zuccherini: L’occasione di questo incontro è la ricorrenza dei sessant’anni dalla liberazione di Perugia, avvenuta il 20 Giugno 1944, peraltro poco evidenziata nella vita pubblica locale. Eppure, a sessanta anni dalla resistenza, siamo tornati a dover impostare nuove forme di resistenza sui bisogni primari della comunità: oggi discutiamo di acqua, di cibo, persino di aria, ridotti a merci e non riconosciuti come diritti; e poi della mercificazione di servizi come la scuola o la sanità; e infine dello svuotamento della democrazia a puro rito formale di delega, e quindi della messa in discussione di valori come la pace e la libertà. I movimenti di questi anni sono stati molto vigili su questi temi, e la nostra rivista ha cercato di seguirne gli sviluppi e i progetti.

 

Marcello Fruttini: L’idea di questo incontro, nell’ambito della rivista Risonanze, è nata proprio movendo dai giovani di oggi; ci siamo chiesti: vogliamo vedere cosa pensano della resistenza i giovani di oggi? Poi siamo risaliti a quelli che avevano fatto un’altra resistenza prima, cioè il 68, e quelli ancora prima, che avevano fatto la resistenza vera e propria, una resistenza ad un regime autoritario ed oppressivo quale quello nazifascista. E sui giovani ho letto ieri sui giornali un sondaggio della Sinistra giovanile tra gli studenti delle scuole superiori: Che cos’è la resistenza? Per uno studente su due, il 55% degli intervistati, la resistenza è sottovalutata nei programmi di studio. Quindi, nel momento in cui c’è chi accusa la resistenza di aver invaso troppo il campo, i giovani denunciano che su questo la scuola fa poco. Nel 51% dei casi i giovani chiedono di sapere cosa facevano, cosa pensavano e quali paure accompagnassero gli uomini della resistenza. Varie e molteplici responsabilità gravano sul fatto che i giovani di oggi sulla resistenza hanno poche conoscenze; noi parliamo di resistenza come resistenza partigiana e movimento antifascista, ma c’è anche un’altra resistenza, quella sbocciata nel 68, che era la resistenza a un altro ventennio, non meno oppressivo ed uniforme, seppur così diverso, di quello precedente, cioè il regime democristiano. Per non parlare dei movimenti di oggi, sui quali sentiremo la testimonianza dei due giovani qui presenti, e dai quali deve partire la nostra azione per il domani. Credo che i problemi che abbiamo lasciato loro siano tanti, grandi e coinvolgenti molte responsabilità. Ai relatori chiediamo di rispondere a queste due domande: che cosa ritenete valido di quelli che erano i valori della resistenza, e quali altre aggiunte e proposte avete oggi.

 

La liberazione richiede un rinnovamento profondo

Raffaele Rossi, Direttore di Umbria Contemporanea: In che cosa credevamo? Non è facile nemmeno rispondere, se uno vuol rispondere per la generazione del tempo, perché non è vero che i giovani sono sempre tutti uguali. Allora, per gli anni che vanno dal 40 al 45, c’è il regime che riesce, con una grande capacità informativa e di propaganda, a regolare l’orientamento di masse di giovani, alcuni dei quali andranno fino in fondo a seguire il fascismo; c’erano poi quelli che invece avevano già una posizione di tipo antifascista, di resistenza al regime, spesso per ragioni familiari e locali:  per esempio un certo ambiente, come Porta Pesa e Borgo S. Antonio, ma anche altri rioni di Perugia, fossero delle enclave di antifascismo: un antifascismo popolare e regolato da molta passività, che aveva il valore di conservare però la memoria dell’antifascismo. Naturalmente, succede poi che molti giovani, che possiamo chiamare non proprio fascisti o antifascisti, forse afascisti, e che seguivano però il credo del regime, negli anni che vanno dal 39-40 al 45 finiscono per spostarsi su posizioni antifasciste, perché non è vera la teoria della zona grigia, questa rappresentazione che De Felice ha fatto di una realtà in cui c’è la grande maggioranza degli italiani in atteggiamento inerte, passivo, e due minoranze che durante il periodo della resistenza si combattono ferocemente. Questa è una rappresentazione schematica, non dinamica, perché invece la situazione è tale che, soprattutto dal 40 in poi, c’è uno spostamento della pubblica opinione, e quel consenso che verso certi strati il fascismo aveva anche ampio, si rivela un consenso fragile; per cui questa grande maggioranza della popolazione non è quella zona grigia ferma, immobile, ma subisce uno spostamento verso l’antifascismo, verso la resistenza, verso la liberazione, verso la pace, che diventa un obiettivo di fondo. Però, all’indomani della liberazione, si può dire che la maggioranza dei giovani pensava ad un futuro di un paese che veniva dal profondo dell’abisso della dittatura e della guerra e che doveva conoscere un rinnovamento profondo. Io spesso cito un editoriale che Aldo Capitini fece sul giornale del Cnl, Il Corriere di Perugia, in cui dice: Cosa intendiamo per liberazione: e dice che la liberazione non è solo la cacciata dello straniero, la fine della sofferenza e dei bombardamenti della guerra, ma è un profondo rinnovamento della società, in tutti i suoi aspetti; quando si tocca il fondo di un pozzo scatta, almeno  per alcune parti di una società, questa ansia di una profonda liberazione, di un profondo rinnovamento. Questo era lo stato d’animo; quando io ho scritto un libro, che è in parte di memoria e in parte di riflessione politica, detti il titolo: Volevamo scalare il cielo, che agli occhi di oggi, anche di questi giovani, può sembrare estremamente retorico, però per noi non lo era; io l’ho mutuato dal poeta francese Gabriel Péry, che alla domanda: Voi chi siete, che cosa volete fare?, risponde: Noi siamo la giovinezza del mondo, vogliamo scalare il cielo. Scalare il cielo voleva significare, al di là della metafora, questo rinnovamento profondo, che poi non ha fallito: perché il processo di questi cinquant’anni, che conosce luci e anche molte ombre, è però un processo che fa crescere la società italiana, che fa determinare delle conquiste di libertà, di civiltà, conquiste sociali ma anche conquiste civili. Però ci sono delle ombre, perché, finito il periodo 45-47, il dominio democristiano sotto l’egida e l’influenza della guerra fredda, una contrapposizione ideologica feroce, cominciò a fare i processi alla resistenza: innanzitutto ai resistenti, e furono migliaia e migliaia i partigiani condannati e carcerati, perché i governi della liberazione non avevano pensato a fare delle norme giuridiche che contemplassero le azioni partigiane come azioni di guerra, e siccome non c’era un testo di legge cui fare riferimento, i magistrati e tutto l’apparato statale e la burocrazia, questo potere permanente e silenzioso, condannavano in base alle leggi fasciste. Ma non si fa solo il processo ai partigiani; si fa il processo alla resistenza, nel momento in cui bisognava mettere all’angolo, possibilmente fuori legge, il Partito comunista che tendeva a identificarsi con la Resistenza, talvolta anche forzando, perché la resistenza è stata un fatto più grande, non solo il prodotto e la partecipazione di un partito, ma di tanti partiti, di un vasto schieramento: è stata anche quella dei militari, è stata anche resistenza civile delle città, è stata anche il sussulto delle coscienze individuali. Potrei anche raccontare episodi che mi hanno riguardato e che conosco, di come si arrivava a cercare le armi e imbracciare fucili in relazione non al fatto che c’era qualcuno che te l’aveva detto, o un partito che te l’aveva ordinato, ma perché avevi attraversato un certo episodio, magari a Porta Pesa avevi visto arrivare i Tedeschi e disarmare il soldatino, l’ultimo badogliano rimasto impalato, e gli strappavano le stellette, e quello piangeva. La resistenza è uno schieramento vasto e complesso, e però è successo che l’Italia reazionaria, intesa non solo come ceti alti, ma anche il “ventre molle” di questa Italia, nel momento in cui la resistenza non costituisce più quell’elemento significativo dell’identità nazionale, quello per il quale il presidente Ciampi va girando l’Italia per ricordarlo, e nel momento in cui fallisce il sistema dei partiti che cinquant’anni avevano regolato la vita del paese, questa Italia risorge, riprende peso, ritorna in auge, regola anche la vita attuale del paese. La resistenza è continuata sempre durante il cinquantennio, e continua, e deve continuare.

 

Realismo storico e sentimento del sociale

Giovanna Casagrande, docente universitaria: Non è difficile per me ricordare il 68, almeno per come l’ho vissuto io che allora ero molto giovane, una “freghina”, il 68 nello stesso anno feci la maturità classica e poi mi iscrissi alla facoltà di Lettere. Quindi si tratta anche di memorie personali; però gli ideali c’erano, ed anche forti: forti idealità a sfondo sociale; e tenete ben presente che a quell’epoca il comunismo c’era, c’era il grande blocco capitalista, l’America con il suo vigore, la sua guerra nel Vietnam, però una alternativa in qualche modo c’era. C’era l’impero sovietico, visto anche in modo negativo, perché sono gli anni dell’invasione di Praga, che fu una scossa; e quindi si criticava quel comunismo, che aveva assunto forme dittatoriali, però ricordo benissimo e bisogna dirlo, piaccia o non piaccia, la storia è storia, c’era il mito della Cina: furono gli anni anche del mito della Cina, e di Cuba. Quindi se si criticava per un lato l’imperialismo sovietico, al pari di quello americano, poi però si continuava ad avere questo mito del comunismo, magari incarnato in altre forme, in altre realtà; che poi abbiamo scoperto che non andavano neanche quelle, e non vanno bene, ma questa è tutta un’altra storia. In quel momento c’erano forti istanze egualitarie e di giustizia sociale, molto sentite, anche per un altro discorso: c’è la Chiesa. Io vengo dal mondo cattolico, sono di formazione cattolica, con la formula di “cattolica di sinistra”, e in quell’epoca c’era il Concilio Vaticano secondo, il pontificato di Paolo sesto, che piaccia o non piaccia è il pontefice della Populorum progressio, che è una grande enciclica, quindi la Chiesa cominciava (come ha sempre fatto, s’intende) a rinnovarsi, e palesava una sensibilità rinnovata verso i ceti meno abbienti e verso i popoli sfruttati: appunto, la Populorum progressio, l’apertura di orizzonte e di sensibilità. Era anche l’epoca di Che Guevara da un lato, ma anche di Camilo Torres; e io feci parte di un circolo, che visse un annetto o due, intitolato a Camilo Torres, che era prete guerrigliero: quindi una sensibilità articolata; certo, la Chiesa ufficiale in un certo modo, la Chiesa non ufficiale in un altro modo, però senza dubbio una grande sensibilità, grandi idealità su fronte sociale. Volevamo veramente un mondo migliore, c’era l’utopia di poter dar vita ad un mondo migliore. E mi ricordo che in quegli anni, i primi anni Settanta, si parlava addirittura di un qualcosa che sembra un bisticcio: si parlava di cristianesimo e marxismo. Ci fu un teologo, Giulio Girardi, che non ho più incontrato ma mi piacerebbe oggi rintracciare, se non altro come testimonianza storica, che aveva scritto un libro con questo titolo: Cristianesimo e marxismo, e che noi come gruppetto Camilo Torres andammo ad incontrare a Bologna perché era quasi un mito, un teologo che cercava di conciliare l’inconciliabile: dove si potevano incontrare il cristianesimo ed il marxismo? Senza dubbio nell’ambito della sfera sociale, la sensibilità verso i meno abbienti, gli sfruttati, siano essi ceti sociali all’interno di una società o siano popoli sfruttati del cosiddetto terzo mondo; e anche il problema del terzo mondo era molto sentito, sia grazie ai movimenti politici o laicali, sia grazie a questa sensibilità interna alla Chiesa stessa, di cui non dobbiamo non misconoscere le luci che ha. Quindi c’erano queste speranze, questi sogni, queste utopie. Le cose non sono andate come si sperava: si, progressi ci sono stati, ma… il mondo lo vediamo com’è, ce l’abbiamo tutti i giorni sotto i nostri occhi. Allora che fare? Ci si ritira, ci si mette da parte? No, uno acquista una certa maturità; qui interviene il realismo storico, forse lo studio: io ho studiato, molto, e questo mi ha dato gli strumenti, mi ha munito di quel tanto di realismo storico, per cui io dico: la storia, percorriamola; è stata sempre animata da grandi idealità, poi tradite e smentite, e poi quello che era rivoluzionario è diventato il più conservatore… Questo realismo storico, questa maturità mi ha consentito di sopravvivere, di non mettere neanche del tutto i remi in barca, ma di acquistare un certo equilibrato disincanto, ma nel contempo persiste un sentimento del sociale: bisogna difendere i meno abbienti, trovare le strutture, quindi difendere lo stato sociale; come sa il senatore Rossi, io sto qui in Circoscrizione come consigliera, sto in un partito, sono iscritta ai Ds: ecco, ho scelto questa area che in questa fase mi sembra la più equilibrata. Però comunque un partito di sinistra, perché io sono sempre per la difesa dello stato sociale, non mi piace questo che sta avvenendo, lo smantellamento: tagliare le tasse sarebbe una bella cosa in sé e per sé, però bisogna vedere che ricaduta ha questo nell’ambito della sfera sociale, perché se la sanità traballa, i farmaci costano di più, molti non hanno i soldi per comprare i farmaci che sono sempre più costosi, se c’è questo, io sono più favorevole alla difesa dello stato sociale, sempre sull’onda di una sensibilità antica, che va dal Sessantotto e arriva, mutatis mutandis, fino ai nostri giorni.

 

La resistenza emotiva e la prospettiva dell’utopia

Maurizio Zara, studente: Io sono uno studente di Ingegneria: da noi di resistenza se ne parla, ma in altri termini… Nella mia esperienza personale, abbastanza attiva, riguardo alla resistenza verso  quella che è la realtà sociale, si avverte moltissimo nei giovani anche adesso, e penso che guardando alle esperienze di resistenza, quella al nazifascismo, quella del movimento del 68, e quella che si sta creando e si è in parte creata ai giorni nostri, vedo delle differenze grandi e che oggi si avvertono molto. Penso alla resistenza al nazifascismo come una esperienza comunque vincente, perché trasversale, perché chi era accomunato dall’idea di combattere il nazifascismo una volta creata la repubblica e la democrazia magari poi si è divisa su molte cose, ma rimaneva ferma la volontà di costruire qualcosa di diverso da quello che c’era allora, ed era una volontà che univa due aspetti: la fermezza e la dinamicità di una resistenza attiva, spontanea, Poi penso a quello che è successo nel 68 e mi sembra comunque un mondo fortemente ideologico, in cui ci saranno state delle critiche all’Unione Sovietica, ci saranno state delle prese di posizione in contrasto verso i paesi comunisti che non rispettavano i diritti umani, però c’era comunque un sentimento ideologico che oggi è praticamente crollato, non c’è più; oggi chi fa resistenza la fa col disincanto del fatto che non c’è più un mondo diviso in due blocchi, c’è un solo blocco vincente del quale la resistenza mette in dubbio la positività, ma non può mettere in dubbio la vittoria. Quindi chi resiste oggi, se realmente analizza il senso della resistenza oggi, la vive col senso del disincanto, della disillusione: quindi acquista un valore differente rispetto a chi ha fatto altre resistenze. Quindi, quelli che come me vivono questa situazione, da un parte vivono il divario tra l’esperienza della resistenza al nazifascismo e quella della “resistenza” del 68, come due esperienze differenti e contrastanti. Io posso aver letto libri o visto film, ma quello che mi ha più impressionato nel mio immaginario è il racconto che mi faceva mio nonno, perché l’ho vissuta come esperienza di persone assolutamente semplici; oggi noi viviamo in una società in cui chi vuole può informarsi su quello che succede nel mondo con una discreta facilità, siamo nell’epoca di  internet, dell’informatizzazione, oggi non è più pensabile che chi voglia sapere non può sapere: in genere è più facile per la nostra generazione, si tratta solo di cercare di vincere la pigrizia e di tentare a conoscere meglio la realtà; chi invece viveva quelle esperienze della resistenza erano persone per cui, immagino, il tentativo di conoscere la realtà partiva da esperienze personali, da una condizione personale, e quindi era qualcosa di spontaneo, anche di emotivo. Anche quello che facciamo noi oggi è emotivo, ma parte da una rabbia sulla realtà del mondo; anche questa è una differenza notevole: tanti che combattevano la resistenza,  combattevano per migliorare la propria condizione personale e quella di chi viveva con loro; oggi, chi fa una “resistenza” come quella dei giorni nostri, si arrabbia molto più per quello che vede succedere nel mondo, piuttosto che per quello che vive nella propria realtà vicina, anche se può vivere situazioni drammatiche, però sente di più la situazione del mondo. Sono probabilmente due tipi di resistenza totalmente diversi, che possono avere l’emotività in comune ma che partono da presupposti diversi. Quindi io penso che in fin dei conti le esperienze sono diverse, ciò che le accomuna dovrebbe essere secondo me la non identificazione in qualcosa di prettamente politico, ma il cercare di fare una lotta quanto più possibile trasversale per il diritti dell’uomo, quindi non accomunare nessuna di queste lotte a una qualche ideologia, anche se oggi qualcuno non la pensa come me tra quanti fanno resistenza contro la globalizzazione, però io la vedrei molto più profonda quanto più risulta trasversale e apartitica, più che apolitica, forse politica ma non partitica, proprio perché bisogna cercare di riaffermare il valore, richiamato anche dalla resistenza, della condizione di tutti, che deve essere trasversale e universale, cioè che non appartiene a nessuno. Diceva Machado: La tua verità tientela per te, la verità cerchiamola insieme. E pur vivendo in un mondo in cui le utopie e le ideologie sono venute meno, deve rimanere comunque l’idea di utopia. C’è un concetto della geometria che dice che due rette parallele non dovrebbero incontrarsi mai, ma esiste anche la geometria prospettiva che dice che due rette parallele in realtà si incontrano in un punto: il punto all’infinito delle due rette è lo stesso, perché è la loro direzione; ecco, io mi immagino che l’utopia dovrebbe essere in qualche modo come il punto all’infinito di tutti noi, cioè qualcosa che probabilmente non vedremo mai, però dobbiamo sapere che in un punto le due rette si incontreranno in quella direzione: altrimenti potremmo rischiare, con la disillusione e il disincanto, di perdere la direzione verso cui indirizzare tutti gli sforzi, anche se forse noi non vedremo mai i risultati dei nostri sforzi, il mondo che noi vorremmo non lo vedremo, ma dobbiamo sempre pensare che potremmo raggiungerlo, o che una generazione futura potrà raggiungerlo, e quindi dobbiamo sempre avere in mente la direzione. E questo è fondamentale per riuscire a credere a quello che si sta facendo, altrimenti noi, come forse quelli del 68, non vedremo mai nel loro arco di vita, dei cambiamenti così come noi li vorremmo, e delle realtà mutate, delle equità ritrovate. Ma sicuramente in un arco di tempo più ampio la situazione dell’umanità, o perlomeno nel nostro piccolo mondo, qualcosa è migliorato nell’arco di un secolo o due secoli, e quindi bisogna pensare che questo possa sempre migliorare anche per le generazioni future.

 

Saverio La Sorsa, insegnante e sindacalista: Io non sono un sessantottino pentito, ma sono un sessantottino critico; e quello che pensavamo allora, non era quello che facevamo. Un conto era quello che dicevamo, e appariva nei documenti o nelle assemblee, perché parlavamo con le parole degli adulti: noi eravamo davvero molto giovani, io avevo vent’anni nel 68, e c’erano anche più giovani di me, del liceo, e quindi prendevamo le parole di quelli che si erano opposti prima, e i più forti oppositori erano i comunisti, e quindi usavamo quel linguaggio. Ma in realtà quello che volevamo e abbiamo realizzato è una cosa totalmente diversa. Se io dovessi scegliere il tema fondante del  Sessantotto è l’antiautoritarismo: è quella la cosa più forte che c’era dentro. Io non so se quelli della mia età si ricordano il manifesto di Palazzo Campana, con uno scheletro e l’ermellino del professore universitario, del 67: il titolo di quel documento era Contro l’autoritarismo accademico. Però l’antiautoritarismo aveva una ambiguità: c’era nei giovani di quell’epoca, studenti ma ricordiamoci che c’erano anche operai, impiegati, insomma gente giovane che viveva in quel momento i problemi e il cambiamento che c’era allora, che da una parte credevano profondamente a un ampliamento della democrazia; quindi se io dovessi trovare quello di positivo che ha fatto il Sessantotto, e il legame con la resistenza, è l’aver ampliato la quantità di persone che sono entrate nella democrazia e l’hanno vissuta davvero, in maniera partecipe, non solo andando a votare, ma hanno portato dentro la società italiana i problemi, li hanno discussi, l’hanno cambiato: e questo è veramente in questo senso un secondo tempo della resistenza; e là c’è il discorso che faceva Giovanna, e che io dico in maniera provocatorio: il Sessantotto è stato anticomunista, se per comunismo intendiamo l’Unione Sovietica; poi la Cina e Cuba erano scuse, ma poi l’abbiamo visto com’era la rivoluzione culturale cinese, il giudizio che ne diamo a distanza di anni, ma secondo me  si poteva dare anche allora. Il problema è che noi non potevamo accettare di essere comunisti avendo come esempio dei paesi in cui la democrazia non c’era; perché obiettivamente dobbiamo dire che la democrazia non c’era in quei paesi, erano paesi profondamente autoritari, in cui un gruppo dirigente dominava milioni di persone; poi quello di positivo che c’era in quei paesi se ne potrebbe parlare, ma non è il dibattito di stasera. Ma non dimentichiamo però che il Sessantotto - e io lo dico sempre quando sono chiamati in queste discussioni - ha vinto su un altro versante: quello della modernizzazione, perché a mio parere il Sessantotto è stato un elemento profondo di modernizzazione del nostro paese. Chi ha la mia età o più deve fare il confronto fra come era una città, fra come erano i rapporti fra le persone, nella scuola, nella famiglia, prima e dopo il Sessantotto. I rapporti tra i sessi? Io racconto sempre ai miei ragazzi quando sono arrivato a Perugia (io sono di fuori): fino al Sessantotto, dopo le otto di sera, Perugia era una città maschile: se andavi in giro incontravi altri maschi, solo qualche ragazza di fuori città, ma rarissima, ma le ragazze non uscivano la sera. La famiglia, che adesso è al primo posto nei famosi sondaggi dei giovani come valore, non era affatto un valore per i giovani di allora, perché là era un modello di autoritarismo in piccolo. C’è questo elemento, che non c’era ovviamente nella generazione precedente, del privato; ma l’evento del privato entrava nel discorso generale della modernizzazione, proprio dei rapporti personali; il che significa che c’era stato uno scarto culturale, più che politico e sociale, tra la generazione precedente e la nostra; e questo scarto si vedeva da cose come il modo di vestire… Il femminismo noi lo vediamo come un fatto politico, ma non era un fatto politico e basta: io femminismo significava l’ingresso delle donne al lavoro; l’avere gli stessi diritti, cosa che fino al 46 non avevano i diritti politici, i diritti civili, l’accesso alle professioni; ma significava anche gestire il matrimonio e la famiglia in maniera diversa, i rapporti sessuali in maniera diversa: certo c’era la pillola, ma senza il Sessantotto le donne non avrebbero usato la pillola. Questa eredità c’è, perché questo è stato un cambiamento fondamentale di paesaggio visivo, culturale, personale che ancora le generazioni più giovani vivono non sapendo che è il frutto di lotte; ma non di lotte con le manifestazioni, ma di lotte dentro la propria casa, rispetto ai propri genitori, rispetto alla propria moglie, alla donna, e la donna a sua volta rispetto a noi. Questa cosa uno non se l’immagina; ma io l’ho vissuta ora per ora, giorno per giorno, ed era una particolarità. Voglio anche ricordare un secondo elemento di modernizzazione; ne dico subito l’ambiguità: anche in questo caso, tutti contenti, ma non dimentichiamo che questa cosa è successa anche di fronte a una disarticolazione che era avvenuta nella famiglia tradizionale. E là non era tutto bello: se andiamo a vedere i quartieri proletari ancora oggi, il tipo di anomia, di mancanza di rapporti, anche di aggressività che esiste, è anche perché la famiglia tradizionale non ha tenuto. Quindi da una parte noi pensavamo di guidare un processo che era effettivamente di emancipazione, ma contemporaneamente non ci accorgevamo che la rottura del modello familiare in alcuni casi è stata una perdita, un danno. Insisto quindi sull’ambiguità perché da una parte ampliavamo la democrazia, dall’altro noi, avremmo detto con il linguaggio di adesso, favorivamo la società borghese. Questa affermazione è un pessimo linguaggio, però dentro quella modernizzazione c’erano anche queste cose, c’era il consumismo: tutti a fare cartelli contro il consumismo, ma il consumismo di oggi viene da lì, dal tipo di vacanze, dai jeans, da quello che si mangia, agli spinelli, se andiamo a vedere, tutte le scoperte di consumo più nuove sono nate lì, ne sono il prodotto deformato, se vogliamo il cascame, di cui possiamo dire che l’industria ha approfittato, ma noi eravamo portatori di quel modello. Un altro aspetto: la cultura. Questa è un’altra grande rottura che ha fatto il Sessantotto: la cultura mia, quella di me giovane, è una cultura sostanzialmente libresca e paludata. Adesso, a distanza di tanti anni, non riesco a leggerla così; però in mezzo, probabilmente, ci ho messo tanta elaborazione critica che mi viene da quel tipo di cambiamento culturale; però la scoperta del Sessantotto è quella dei nuovi mezzi di comunicazione: il fumetto, il cinema… Anche nel film di Bertolucci, I sognatori, una cosa almeno è vera: quegli studenti erano fissati per il cinema. Immaginateli dieci anni: non sarebbe stato così. Paradossalmente, il Sessantotto non ha cambiato il linguaggio se non marginalmente, perché come ho detto, soprattutto la parte politica usava parole vecchie, non corrispondenti al processo che si svolgeva; dall’altro ha usato però spesso mezzi nuovi per comunicare; e quei mezzi erano considerati sbagliati da mio padre o mio nonno, al massimo potevano essere un divertimento; mentre chi direbbe oggi che il cinema è semplicemente un divertimento? O il fumetto, che adesso mi annoia, ma allora si poteva dire che era una forma di espressione, non dico di alta espressione, ma comunicava, poteva dire delle cose nuove.

 

Resistere è continuare ad essere una goccia nel mare

Elena Ranfa, attivista della Tavola per la Pace: Io collaboro con la Tavola per la Pace, e ringrazio per avermi invitato qui stasera perché ci sono stati degli spunti molto interessanti e anche nuovi per me, perché, e concordo con Maurizio, le cose lette hanno un valore, ma le cose raccontate, l’oralità secondo me ha sempre uno spessore non confrontabile con il resto. Quando mi è stato detto di venire qui, tramite Gabriele De Veris, con il quale collaboro con l’Istituto Conestabile della Staffa e la Biblioteca Toniolo, sinceramente avevo poco chiaro quale fosse il mio ruolo; poi, dato che io alla Tavola per la Pace sto creando un centro di documentazione per la pace, e quindi sono immersa tra faldoni, vecchi documenti, e non solo vecchi, mi è passato tra le mani un appello di un marcia per la pace, ve ne leggo solo qualche riga: “I partecipanti alla marcia esprimeranno la loro volontà di resistere alla guerra e di fronteggiare le cause di essa, lotteranno per l’ammissione di tutti gli stati alle Nazioni unite, la fine di tutti gli esperimenti nucleari, il disarmo generale, la conversione della politica estera culturale ed economica ad un deciso avvicinamento ai popoli non impegnati, lo sviluppo del controllo democratico dal basso e della libertà di informazione e di critica, la diffusione nell’educazione dei giovani di uno spirito di dialogo e di apertura, il superamento del colonialismo e del razzismo e dell’oppressione in tutte le loro forme”. Potrebbe benissimo essere l’appello della prossima marcia del 2005: poi uno va a guardare la data e il firmatario, e si vede che è l’appello scritto direttamente da Aldo Capitini, di una marcia, tra l’altro secondaria, Camucia-Cortona, del 1962, quindi la seconda marcia subito dopo la prima grande marcia del 1961, e che si è ripetuta per un po’ di anni. Di fronte a questo, mi sono chiesta: che vuole dire resistere? Io che ho venticinque anni, che penso di muovermi, sento anche tanta demotivazione, perché se uno legge si chiede se veramente tra i giovani c’è questo spirito di dialogo di apertura? c’è un’educazione dei giovani? l’informazione è veramente libera e critica? l’ammissione di tutti gli stati alle Nazioni unite? Si, nell’assemblea ci sono quasi tutti, ma nel Consiglio di sicurezza ce ne sono cinque, o poco più per qualche tempo. Di fronte a questo, o uno si ferma, e penso che se mi fermo io a venticinque anni è veramente la fine, oppure tenta: tenta, nel suo piccolo, ovvio, perché gli strumenti che posso avere in mano io non possono certo risolvere chissà quali problemi, comportando comunque quella che Maurizio chiamava una resistenza emotiva, che è sicuramente affine nelle speranze, nelle passioni, negli obiettivi, alle resistenze del passato, credo che si debba attivare una resistenza attiva, del muoversi, del fare. In particolare, alla Tavola della Pace io sto collaborando con Lucia Maddoli, che è la coordinatrice nazionale della Campagna del Millennio, una campagna promossa dall’Onu che punta a sensibilizzare la popolazione sugli otto obiettivi del millennio: sono delle promesse che i capi di stato hanno fatto nel Duemila, sono obiettivi che non chiamerei utopistici ma di certo molto alti come la lotta alla fame, l’istruzione primaria, combattere l’Aids, la parità uomo-donna, e andando avanti così su tematiche molto alte. Però erano impegni che ben 189 capi di stato si erano presi all’apertura del nuovo millennio, dandosi come data ultima il 2015. Ovvio, nessuno pensava a una risoluzione globale del problema, ma perlomeno che i vari stati adottassero delle politiche risolutive. In realtà, siamo ormai quasi al 2005 e in certi casi si può parlare di regressione, se si pensa che per risanare il debito dei paesi sottosviluppati era stato stabilito il famoso 0,7% del prodotto interno lordo da versare ai paesi del terzo mondo, e l’Italia è allo 0,16, e forse con la prossima finanziaria darà ancora di meno, prende un po’ di delusione; anche io che sono giovane e penso di avere un futuro davanti e delle possibilità, però se i capi di governo non fanno nulla, se gli stati non si muovono, come posso farlo io? E proprio sulla cooperazione internazionale, a alti livelli, ieri c’è stato un concerto su Rai Tre, organizzato dal Ministero degli Esteri: mi è sembrato una gran pagliacciata, perché la cooperazione internazionale è, a mio modo di vedere, quasi esclusivamente nelle mani delle O.n.g., le organizzazioni non governative. C’è un movimento di persone volontarie che con forze e con volontà stanno portando avanti le responsabilità che dovrebbero essere degli stati. E come noi giovani riusciamo a calarci in un contesto così confuso?, come forse è il mio discorso, perché sono cose che mi toccano parecchio: tentiamo; io ho organizzato nel giro di due mesi dibattiti con i giovani, esperienze alternative in cui i giovani dovevano esprimere, con graffiti, quadri, fotografie, la loro sensibilità verso questi obiettivi; faccio anche la volontaria in parrocchia e lavoro anche con l’Arci per i Consigli comunali dei ragazzi, e quindi ho sempre a che fare con i ragazzi, e penso che sono loro la speranza, e quindi penso che, come diceva anche Capitini, bisogna diffondere l’educazione, la scuola non lo fa più, la televisione non lo fa, le famiglie non hanno più tempo di farlo anche se è probabile che in qualche modo avrebbero voluto farlo, e penso che ci sono persone che possono dedicare parte del loro tempo a sensibilizzare gli altri su certe cose che sono grandi. Io sto alla Tavola della Pace e ogni mattina arriva Flavio Lotti, che è il coordiantore della Tavola, e la moglie Randa è palestinese, e ogni mattina alle cinque vede Al Giasira, Al Arabija e ci riporta le notizie dall’altro punto di vista: è sconcertante la differenza netta, quasi abissale, tra l’informazione che abbiamo noi e quella che trasmettono due delle televisioni, tra l’altro, più moderate dei paesi arabi. Ecco, io penso che continuare ad essere una goccia nel mare può ogni tanto avvilire però sia l’unica soluzione di fronte alla situazione che si prospetta.

 

Raffaele Rossi: Ho ascoltato con vivo interesse tutte le cose che sono state dette a questo tavolo, e mi complimento perché è venuto fuori un dibattito interessante, molto stimolante. Ecco, Saverio La Sorsa parlava del Sessantotto come modernizzazione: di questa parola io non darei una valutazione necessariamente positiva. E’ una cosa molto complessa e con molte contraddizioni. Per questo io, con altri, ho cercato di fare questa rivista, “Umbria contemporanea”, per fare una riflessione critica sul,processo di modernizzazione della nostra regione. Mi sono interessate molto le cose dette dai giovani: quello che ha detto Maurizio sulla resistenza emotiva, che capisco molto bene in questa situazione; ma la resistenza emotiva ce l’avevamo anche noi, allora, però ci fu un momento in cui ci interrogammo se dovevamo continuare a essere spettatori, o non dovevamo fare qualche cosa. Allora, quello che ha detto Elena è eccezionale: il fare. Grazie Elena: il fare decide; la resistenza deve essere emotiva ma attiva. Noi ci siamo passati per questa cosa: certo le resistenze di cui si è parlato hanno attraversato fasi storiche tra loro molto diverse, non confrontabili; però, quando noi ci impegnammo in quella battaglia, pensavamo a un’Italia libera, giusta, pacifica, civile, a una società fraterna. Noi non abbiamo veduto realizzati questi ideali, abbiamo cercato di avvicinarci, però la cosa importante è crederci, anche se c’è una dimensione utopica in quello in cui crediamo, perché è quello che fa camminare la storia, che fa camminare il mondo. Per questo io sono d’accordo nel combinare resistenza attiva e resistenza emotiva, che dà una compiutezza, che dà una prospettiva, che dà anche una fiducia.

 

 

Giuseppe Virgili: Io ho scritto un libro sulla resistenza nel Cagliese e nell’Eugubino; ho inquadrato questa storia della resistenza in una zona ristretta, che conoscevo, con la storia del paese. La resistenza, per me, è stata lo scontro tra lo stato-nazione, che era forte dal 1870, e il popolo-nazione: un incontro che non era mai avvenuto, tanto che dallo stato unitario si è passati al fascismo e dal fascismo alla guerra. La resistenza nella mia terra io l’ho vista spontanea: due preti e un libertario. Ho concluso che la resistenza è nata spontanea, con i gruppi e poi le brigate che si sono unite con il Comitato di liberazione, fino alla resistenza come fatto nazionale e unitario, con tutte le forze politiche antifasciste, che porta alla Repubblica e alla Costituzione. Se poi questo è fallito, se ha trovato i suoi ritorni all’indietro, è per un complesso di ragioni. Ma veniamo al discorso dell’oggi: questa resistenza è stata dimenticata, svilita quasi, però c’è sempre qualcuno che l’ha portata avanti. Poi si è parlato del Sessantotto: esperienza grandiosa, di livello mondiale; Maurizio ha parlato dell’utopia. L’utopia, come dice Brecht, abita sulle colline vicine, ci illumina, ma la storia si fa nei crocevia; allora si ritorna al concreto delle situazioni. Elena ha detto una cosa molto giusta: che di fronte a questa situazione difficile, dobbiamo fare: ha ragione. Quindi si ritorna alla politica: se la resistenza è stata un po’ messa da parte, se il Sessantotto è lontano, dobbiamo tornare alla democrazia e alla libertà, alla concretezza della politica vista attraverso la democrazia e la libertà. Io sono partito nel mio libro da un libertario, contadino e analfabeta, e due preti: il mio parroco morto a Mathausen, e don Marino, il prete bandito, che portava la rivoltella: però erano personaggi spontanei, del posto, nati da una crisi della nazione; e la resistenza fu un fatto di intellettuali e operai, ma la base era fatta dai contadini: chi li  ha assistiti? chi li ha nascosti? Nel mondo contadino nessuno faceva la spia: e come diceva Gramsci, se è mancata la democrazia è perché non si è fatta la riforma agraria nel Risorgimento.

 

Marcello Fruttini: Vorrei rimarcare una cosa che mi è venuta ascoltando Virgili: l’idea che la resistenza, in fin dei conti, fu una esperienza obbligata, perché c’era l’oppressione nelle case, c’era lo straniero che uccideva, che portava nei lager, ecc.: infatti molti giovani andarono in montagna per ribellarsi a tutto questo. La resistenza del 68 fu anche questa una ribellione all’essere tutti a una dimensione, e in quella ribellione ci fu tutto quello che ha detto La Sorsa e ha detto Casagrande. Se vogliamo allargare l’analisi, ci sono anche tanti altri aspetti in cui riconosciamo l’impronta del Sessantotto: pensiamo a quello che avvenne nella scuola. Io che non appartengo né alla prima generazione, quella della resistenza storica, né alla seconda, sono in una posizione privilegiata perché ho vissuto tutte le emozioni della resistenza, ho visto i partigiani entrare nelle città, ho visto i fucilati e i parenti obbligati dai tedeschi a seppellire i morti; poi ho partecipato in pieno, anche se ero più vecchio, anche al periodo del Sessantotto, traendone un grosso arricchimento emozionale; e soprattutto quel processo di modernizzazione che allora aveva preso la via giusta: la via della cooperazione, della democrazia, della lotta all’oppressione; poi questa modernizzazione è stata manipolata dai mezzi di massa, è stata portata verso tutt’altro campo. D’altra parte, se facciamo l’elenco dei gruppi e gruppuscoli del Sessantotto, arriviamo a undici-dodici, l’uno armato contro l’altro. La speranza di oggi è venuta proprio dai due giovani che abbiamo qui, che abbiamo visto impegnati, e impegnati soprattutto sulle emozioni, e dalle emozioni nasce il fare. E sono rimasto affascinato dalla lettura dell’appello di Capitini del 62: io pensavo fosse il programma dei movimenti di oggi; sono più di quarant’anni che questo programma è scritto, ed è quanto mai meritorio che qualcuno lo tiri fuori, e su queste linee ci si possa muovere insieme.

 

Elena Arcari: Mi ha colpito il nesso resistenza-rinnovamento. Ricordo che alla Conferenza paneuropea per la pace del 1976, Berlinguer chiude con l’affermazione che la resistenza è rinnovamento, e possiamo rinnovarci con la politica; e chi è la politica? La politica è un individuo.

 

Raffaele Rossi: Però il manifesto che ha colpito il nostro moderatore ci dice che tra tante novità, discontinuità, rotture, la categoria della continuità esiste, ed agisce: ecco perché il rapporto passato-presente è così importante.

 

Giannermete Romani: Credo che oggi la resistenza può essere solo etica del quotidiano, gesto, comportamenti, vissuto; dobbiamo resistere senza pensare a una rivoluzione ma nei comportamenti, nel ridurre i consumi, e via dicendo. E qui faccio un appello a tutti, perché credo siamo tra  elettori di sinistra mediamente, almeno visto quello che si dibatte, e c’è bisogno in Umbria di una resistenza forte, perché purtroppo, dopo che la nostra regione è stata a lungo un laboratorio di democrazia, un laboratorio dove le utopie avevano una sede di discussione, che ci amministra, cioè quelli che votiamo, purtroppo sta perdendo i valori dello specifico dell’Umbria. Come diceva prima Rossi, anch’io ho qualche perplessità sull’idea di modernizzazione tout-court, nel senso che se modernizzazione per l’Umbria vuol dire soltanto ingrandire a dismisura le zone industriali, pensare alle autostrade e ai vari nodi, eccetera, io non ci sto. Rispetto a questo voglio cominciare a resistere: cominciamo a resistere nei luoghi dove viviamo, nel quotidiano; parliamo anche della globalizzazione, ma cerchiamo di elaborare progetti rispetto alla globalizzazione nel luogo dove stiamo. Come dicono le multinazionali, “agiamo globalmente e pensiamo globalmente ai nostri interessi”: appropriamoci in maniera più furba di questo, e facciamo tornare di nuovo l’Umbria uno spazio di democrazia reale, di partecipazione dal basso. Qui c’è Zuccherini che ha detto questa bellissima cosa, camminare fa bene alla democrazia, e ha dato voce a un’idea che mi accompagnava da sempre: quindi torniamo a camminare insieme, qui in Umbria, intanto, e cominciamo a lavorare rispetto ai nostri amministratori su questa idea di sviluppo, che mi sembra ormai non si differenzi dall’idea di sviluppo che ha il neo-liberismo. Pensare a una autostrada in Umbria, a tutte quelle strade che dovranno collegare il Tirreno e l’Adriatico, senza tener conto della morfologia della nostra regione, elaborare continuamente varianti ai piani regolatori: ecco, cominciamo a resistere nelle sedi delle circoscrizioni, in Comune, in Regione, nelle associazioni, diamoci da fare perché ce n’è molto bisogno.

 

Elena Ranfa: Spesso sono battaglie perse, ma io sono “tignosa” e provo a portarle fino in fondo; io sono membro esterno dei Ds. Hanno fatto una rotatoria a Ponte San Giovanni: ebbene, si parla di deboli, di terzo mondo… ma hanno fatto una rotatoria che sicuramente ha snellito il traffico, però è vicino al Centro socio-culturale degli anziani, alle scuole, al Cva dove si fanno le attività sportive, ai giardini… Andando alla conferenza “Socialmente”, nella quale c’era anche qualche persona sensata, tra cui un architetto che diceva che le rotatorie aumentano gli incidenti per i pedoni del 70%, esattamente il 69,3, che non è cosa irrisoria. Io stessa, la prima volta che l’ho vista, mi sono detta: Certo che è comoda, ma una rotatoria qui, come attraversa Domenico (che è il nostro amico non vedente)? Perché in una rotatoria il non vedente non attraversa se non ci sono i semafori. Quindi, anch’io credo che ognuno guarda al suo piccolo, di sopruso nei confronti dei più deboli, solo perché magari non votano, ce ne sono già a Ponte San Giovanni, senza guardare tanto lontano.

 

Giannermete Romani: Anche io sono iscritto a un partito della sinistra che ci governa; e siamo obbligati a portare ai nostri amministratori il richiamo alla resistenza in ogni momento, in ogni consesso, ogni incontro, soprattutto per abbassare un certo tipo di protervia di persone che ci amministrano e che dovrebbero richiamarsi e condividere con noi i valori della resistenza, e invece mi sembra che ogni tanto li tradiscono, e se non ce lo diciamo qui mentre stiamo parlando della resistenza del 44, della resistenza di quelli che hanno fatto il Sessantotto, della vostra, della nostra che abbiamo partecipato a tutte le manifestazioni a Roma e alle marce della pace; poi nel quotidiano le nostre storie, la nostra memoria è falciata da tutta questa violenza sul territorio.

 

Marcello Fruttini: Anche Maurizio ci ha parlato del monoblocco imperante e della rabbia che questo provoca. Certo, anche a Perugia sembra che l’ideologia predominante, basta andare in centro storico, sia quella del gippone.

 

Raffaele Rossi: Sempre più grande, sempre più lungo: non solo a Ponte San Giovanni, è la città per gli uomini a quattro ruote, non esistono più gli uomini.

 

Giuliana Zanata: Io vengo da Todi, ho anche scritto sul giornale “Camminare” di Zuccherini, che ringrazio, una protesta perché ancora Porta Romana è tutta impacchettata e per un pedone è difficilissimo passare, perché le macchine scendono a velocità pazzesca: è un problema enorme, anche perché un vigile non c’è mai. Todi è un piccolo paese, però francamente io sono stanca: mi muovo, protesto, poi vedo che ti segnano a dito, ti fanno anche qualche dispetto, e c’è molta cattiveria, proprio fra i giovani. Per questo sono venuta a questa riunione, anche se per me è faticoso, ma stiamo insieme, guardiamoci in faccia, facciamone altre, perché non ce ne sono, al cittadino non è rimasto niente. Ecco perché mi piace questo giornale elettronico. E veramente voi giovani dovete darvi da fare, nel senso che dovete considerare il vostro prossimo anche il debole, specialmente il debole: bisogna entrare nei luoghi deputati dove sono i vecchi che soffrono, non si ha tempo più di curare i vecchi e li mettono in queste strutture e poi nessuno li va a trovare. Io mi sento in dovere di fare da madre a queste persone; ma ci devono essere dei comitati che vanno a controllare, non si può pensare che un vecchio è buttato in un letto, legato mani e piedi, non ci dev’essere questo fatto. Noi abbiamo poche risorse: abbiamo la risorsa della bellezza dell’Italia, la risorsa della creatività degli Italiani, la risorsa dell’amore verso il prossimo; ce l’abbiamo, però l’abbiamo soffocato. E i giovani sono sfruttati; ed essendo sfruttati, non hanno tempo da dedicare al bene comune. Ognuno di noi si deve sentire in dovere di pensare a chi è più debole, altrimenti l’Italia sta affondando, lentamente. I giovani, con il lavoro interinale, sono sfruttati; l’altro giorno, ad esempio, mio figlio mi ha detto: Mamma, ma lo sai quante persone o ditte guadagnano su di me? Quattro ditte! Ma i sindacati dove sono? Gli ho detto: Iscriviti ai sindacati. Ma non si possono iscrivere ai sindacati, perché altrimenti gliene fanno di tutti i colori! Ma siamo a questo punto! Io ho cercato di lavorare coi sindacati, ma me ne sono andata, non ho visto persone serie tra quelle che mi hanno contattato; quindi io non vado in questi posti, ma mi muovo in prima persona: scrivo, rompo, ma faccio qualcosa, perché in certi ambienti non è facile. Non so se poi bisogna scendere a compromessi ai quali io non voglio scendere; io mi sento una persona corretta. Ultimamente c’è stato veramente uno scadimento. Io mi ricordo che è dal Sessantotto, avevo un datore di lavoro che mi fece capire, io ragazza giovane, che questo mi si offriva, voleva anche provocarmi, e da lì ho incominciato a dire: Ma in che mondo sono? Com’è il mondo del lavoro? E questo è degenerato. I miei figli sono fortunati a essere sani: delle volte vedo certe cose alla tv e dico: Ma loro come saranno? Si vedono cose, è terribile, tutto sesso, uno schifo! Vediamo di darci da fare. Vi ringrazio.

 

Mario Migliucci: Mi sembrava sottesa una questione, che costituisce in qualche modo un filo rosso tra Resistenza, Sessantotto, giorno d’oggi, e giorno d’oggi come processo di ritorno indietro contrabbandato per riformismo; ed è la questione della classe dirigente. Mi sembra che dietro la resistenza ci fosse un valore: il rivolgimento era una nuova classe dirigente, o nuove classi dirigenti. Probabilmente il percorso che è stato fatto, cioè il ventennio democristiano, è stato al contrario il consolidamento di una vecchia classe dirigente che è rimasta: la classe dirigente della burocrazia, addirittura l’ultima burocrazia dello stato liberale formata nello stato fascista. E da questo punto di vista ha ragione La Sorsa, cioè il vero elemento di rottura del Sessantotto è stato l’antiautoritarismo, che nel mondo è cominciato a montare dai primi degli anni Sessanta; io ho la stessa età di Marcello, cioè sono di quella generazione che sta a metà: ha visto la fine della Resistenza ed era già vecchiotta o meglio matura al tempo del Sessantotto, però quello che è scoppiato nel Sessantotto, perlomeno nei primi tempi, è stato questo tentativo antiautoritario e quindi di messa in discussione dei gruppi dirigenti di quegli anni a tutti i livelli. Di quegli anni è la teoria del micropotere, cioè si combatte non contro il potere politico, ma contro il potere in tutte le sue dimensioni. Il Sessantotto indubbiamente ha avuto una rapidissima evoluzione verso la politica: nel giro di due o tre mesi, tra la metà del Sessantotto e gli inizi del Sessantanove, tutti i vari gruppi e i vari movimenti si sono trasformati: Lotta continua, Potere operaio, i vari movimenti di marca filo-cinese che nascevano da una contestazione spesso cattolica della facoltà di Sociologia di Trento, ecc. Questa modificazione è stata la fine del Sessantotto in una certa misura, però c’è stata una mediazione che io inviterei a tenere presente; è stata anche una grossa trasformazione in ambito sindacale. Ricordate che l’incontro studenti-operai, generalmente fallito, però ha incrociato fruttuosamente due o tre battaglie che sono state decisive per la modernizzazione in senso proprio: la fine delle gabbie salariali è stata una grande vittoria del movimento sindacale rinnovato, su cui appunto ritrovava la sua unità; e su quel tentativo di modernizzare è stato il progetto ambizioso della Fiom e della Fim , perché la stessa Cisl aveva nella sua sezione metalmeccanica questo ambizione di un progetto di allargamento culturale in previsione di una democrazia in fabbrica. E le 150 ore nascono con questa ambizione; poi diventano semplicemente il prendere la licenza media. Questa è stata la continuità: allargamento dei diritti di cittadinanza, controllo delle classi dirigenti, possibilità di condizionare il cambiamento delle classi dirigenti. Se noi vediamo la realtà di oggi, è proprio questo che si è concretamente ribaltato: l’irrigidimento di classi dirigenti, l’impossibilità di un controllo dal basso delle classi dirigenti, la mancanza di canali che sono stati tutti chiusi. Oggi, vediamo le stesse parole d’ordine:la scuola come impresa, il richiamare l’impresa: l’impresa e la chiesa sono le due istituzioni che con la democrazia non hanno niente a che fare: non possono essere democratiche; ebbene, lanciare l’impresa come modello per la scuola, per la sanità, per tutte le istituzioni di carattere sociale, significa esattamente la ricreazione di gruppi di notabili, di tecnici, stabili, non controllati, gerarchizzati, rispetto ai quali c’è un solo diritto di cittadinanza, il voto ogni cinque anni. E’ quello che si chiama la democrazia elitaria. L’essenza del berlusconismo è questa, è la cultura della democrazia che costituisce la più ampia delega al cittadino a gruppi dirigenti che si formano altrove: oggi vengono quasi tutti dalla amministrazione aziendale, o sono gli avvocati; gli avvocati sono sempre stati una spina dorsale, però gli avvocati della fine dell’Ottocento per il 50% sono i fondatori del partito socialista. Allora giusto parlare di resistenza emotiva; ed ha ragione la signora che a guardare il mondo oggi veramente viene il voltastomaco; forse viene perché del mondo vediamo molto di più di quanto non vedevamo cinquanta anni fa, che ne vedevamo poco, molto poco; per avere informazioni negli anni Cinquanta faticavo parecchio: oggi non fatico ad avere informazioni, ma fatico a selezionarle e gerarchizzarle. I giovani ne hanno tante, ma tutto è uguale a tutto. Allora la reazione emotiva di fronte al mondo, l’impegno nel concreto, sono essenziali; però il problema che pongo è questo: come si fa a ricreare movimenti di massa, che abbiano come obiettivo il controllo delle classi dirigenti. E’ un problema a cui io non so dare una risposta, nei confronti anche dei partiti in cui siamo, perché anche nei partiti in cui siamo c’è stata una stratificazione di classi dirigenti che è passata attraverso una forma di capacità amministrativa come tecnici dell’amministrazione; le cose che dicevamo noi del traffico sono proprio questo: io sono in grado di farti un piano urbanistico, per cui non rompere le scatole. Allora il controllo del cittadino viene a uno degli obiettivi del Sessantotto e degli anni Settanta. Quand’è che abbiamo perso la partita? Quand’è che abbiamo cominciato a non controllare la possibilità di avere un controllo? Ci sono stati gli anni Ottanti, il thatcherismo, il reaganismo, la sconfitta dei sindacati sul piano mondiale: sappiamo tutto. Ma oggi, in questa situazione, a me sembra che questo sia il problema essenziale, in continuità con quanto nella parte seconda della Costituzione: diritti civili,  diritti politici, diritti sociali e diritti etico-culturali sono le quattro aree in cui ci sono diritti di cittadinanza forti. I diritti sociali cominciamo a giocarceli; in questo momento sono sotto attacco gli stessi diritti civili, la privatizzazione dei diritti culturali: siamo in una fase estremamente delicata. Non ci sarà bisogno di toccare la Costituzione su questo punto, perché è carta straccia. Che cosa fare rispetto ai diritti di cittadinanza, rispetto al controllo delle classi dirigenti alternative alle attuali classi dirigenti? Nel Sessantotto, c’è stata anche una fase, la fase iniziale del Sessantotto: Saverio ricordava Palazzo Campana, io ricordo il primo movimento di occupazione a Pisa. Gli studenti pisani occupano la facoltà di Filosofia (con Sofri), e nell’occupazione propongono lo studio per seminari, proponendo come tela di autogestione la lettura di un libro di filosofia della scienza, che era stato da poco pubblicato da Feltrinelli, un bellissimo libro, oggi ormai ovviamente antiquato; però in nuce ‘era un’idea: vale a dire, gestiamoci la cultura collettivamente, dal basso, avendo come interlocutori i docenti ma non dipendendo dai docenti. Era un’idea formidabile: era quello uno dei modi per avere classi dirigenti. Non a caso tra i grandi partecipanti ai movimenti del Sessantotto c’erano dappertutto gli studenti di Fisica; le occupazioni più forti erano gli studenti di Fisica: a Roma, a Milano, a Pisa, che erano tra i più preparati e tra coloro che maggiormente riuscivano a veicolare una cultura -  preparazione di classi dirigenti in qualche modo più autogestite e meno selezionate.

 

Renzo Zuccherini: Sono stato molto coinvolto da tutti gli interventi, soprattutto da quelli dei due studenti ma anche dagli altri perché ovviamente c’è la vita dentro; e sono contento che la piega che sta prendendo il dibattito è quella di andare a individuare certi elementi di continuità: per esempio, il fatto che gli elementi forti della resistenza nei vari periodi sono quelli legati alla ricerca dei diritti delle persone. Questo mi sembra importante; ed emerge che oggi questo deve essere l’elemento forte, quindi fare, agire, senz’altro col disincanto rispetto alle ideologie, sicuramente il fatto di una presenza attiva. E qui c’è il problema di quali sono oggi le forme di tale presenza: la signora prima citava i comitati. Credo che sia molto interessante pensare che oggi ci siano altre forme di democrazia, rispetto a quelle rigide del passato: io ricordo quanto siano state rigide tali forme nel Sessantotto, quanto era rigida l’organizzazione; ed oggi ci sono altre forme, altri modi, di cui mi piacerebbe parlare. E sono contento anche che si individuino poi nelle fasce più deboli, in coloro che vivono la vita quotidiana senza potere, i soggetti da cui partire: da noi, e forse anche in altre parti del mondo, perché oggi abbiamo la possibilità di fare questo confronto. Allora dire: attraversare la strada a Ponte San Giovanni non è più un fatto minimo, marginale, secondario; diventa riconoscere che quella persona, che magari ci vede poco, però ha lo stesso diritto di un’altra che ha il fuoristrada: da questo noi ripartiamo per ricostruire un’idea di città. E allora su questo chiaramente deve avvenire uno scontro, un conflitto, che oggi assume forme totalmente diverse dal passato, sia dalla Resistenza che dal Sessantotto; quali siano le forme sarebbe interessante discuterlo, perché sono forme sicuramente creative, e in ogni caso nonviolente: questa è una differenza enorme rispetto al passato, rispetto alla Resistenza, che ha avuto una certa storia, ma anche rispetto al Sessantotto, in cui la violenza ha avuto un ruolo: noi l’abbiamo detto a parole, a fatti posso assicurare di non aver mai toccato nessuno, però le parole c’erano, non ce lo dimentichiamo. E oggi abbiamo una maturazione rispetto a questo; e abbiamo una maturazione anche rispetto alle forme organizzative: dire che non siamo più in forme rigide come i partiti, ma ci sono altri modi, certo non abbiamo le ricette, però può essere interessante. Dunque ripartire da questi elementi e su questo costruire le aggregazioni e costruire democrazia: questo è il filo che io ci leghi alla Resistenza, democrazia e anche la libertà, che mi pare ci stiamo giocando oggi. E non ce le stiamo giocando solo a livelli teorici, ma a livelli pratici: nell’esempio di Ponte San Giovanni come in quello dell’autostrada, cioè nelle scelte che vengono fatte e che non vengono assolutamente discusse. Non esiste nessuno che ci abbia chiesto se dobbiamo fare o non fare l’autostrada: non solo a noi qui, ma al Consiglio regionale, qualcuno l’ha chiesto? Però l’autostrada si farà. Allora credo questa crisi di democrazia oggi pone delle scelte: scelte concrete sul qui, noi, concrete, sul dove siamo e viviamo.

 

Giorgio Filippi: Questa tavola rotonda era partita un po’ leggera, per rispondere solo a dei richiami alla storia, e invece ci stiamo interrogando sul perché Bush fa una guerra e poi viene rieletto: e questo che vuol dire? Ci siamo mobilitati sulla pace, la totalità del paese, e poi l’applicazione politica quale è stata? Quindi ci interroghiamo su come partecipare. Molti di noi vorrebbero  stare a riposare, perché si sentono fuori, e invece sono richiamati alla leva obbligatoria della politica perché stiamo vivendo questo disagio. Anch’io ho pensato: adesso mi metto a leggere, a studiare, e invece sento che c’è la necessità, qualcuno ti richiama perché qualcosa si è rotto e c’è un bisogno di intervento. La rivista è questo, e io dico allora: approfittiamo di questa cosa, magari riflettendo anche su come vive questa cosa, e perché una rivista che ha quattro anni e piace a tutti quelli ai quali riusciamo a portarla, poi non trova nessun appoggio. Io metterei in evidenza questo aspetto: l’emozione; è vero: alcuni hanno agito in situazioni più drammatiche, alcuni un po’ meno, però c’era questa grossa carica emotiva che ci faceva fare gruppo, ci ha compattato: se ricordiamo le litigate che si facevano tra noi, adesso ci fanno ridere, adesso ci troviamo con un problema molto più grosso, quello che diceva Mario di chi ci rappresenta, del perché la regione Umbria che ha un rapporto rappresentanza civile 1-5 (da un vecchio studio che facemmo una ventina d’anni fa) tra enti locali, circoscrizioni, ecc., quasi una democrazia diretta, perché questa è una rete di controllo e non invece una democrazia. Che sta succedendo? Perché molti di noi si devono rimettere a fare cose delle quali probabilmente farebbero a meno. Però bisogna farlo: è un modo per resistere. Ma io vedo un filo comune, nelle emergenze stiamo riscoprendo le cose essenziali. Io ho trovato molta continuità tra le cose che diceva Rossi e quelli che siamo andati sviluppando: questo modo di riflettere su quello che ci appartiene e che qualcuno vuole toglierci. E perché io non ho qualcuno che mi rappresenta, e me lo devo costruire, magari con un giornale, un gruppo… A me non dispiace, ma la vivo come una fatica; e invece dobbiamo riflettere. Ecco perché noi ci impegniamo perché la rivista esca, e l’occasione sarà quando esce per rifare una discussione sui materiali che sono usciti, che ritengo particolarmente interessanti anche sulla nostra Regione. Però dico: riprendiamoci questa attenzione, e mobilitiamoci. Quello che ho colto stasera è che non esiste età in questo tipo di riflessione: tutti, chi più chi meno, con più o con meno energia, ci sentiamo coinvolti. Io non mi sento né uno che fatto il Sessantotto, ma uno che deve ricominciare, come se non avessi fatto niente.

 

Saverio La Sorsa: Dirò una cosa che volevo dire all’inizio, ma mi sembra venga bene ora dopo il dibattito che c’è stato. Mario ha ricostruito, da par suo, un quadro della situazione di adesso; io sono molto d’accordo che adesso ci sarebbe bisogno di un nuovo Sessantotto, anche se non ci sarà; e mi viene di dirlo dopo quello che ha detto la signora Zanata; perché se allora la figura negativa era la signora in bigodini, sessuofobica, adesso è la velina la nemica vera di un movimento di emancipazione femminile. Attenzione: non è che la liberazione sessuale noi la vivevamo nel senso di nuove forme di servitù della donna, che magari non fa la lavatrice ma è costretta a truccarsi e a “vendersi” per poter avere un quarto d’ora di celebrità. Il problema è, anche se sgradevole a dire, e questa è veramente una diversità con la Resistenza e qualche cosa che non era previsto: io ho detto che parlavamo con il linguaggio di quelli più vecchi di noi e dei vecchi partiti, ma era perché non avevamo altri linguaggi; usavamo forme diverse con quel contenuto,ma in realtà noi non possiamo dire che il Sessantotto è derivato da un partito; certo, che il Pci ha messo elementi forti, ma si tratta di un processo di democratizzazione totalmente diverso da quello che c’era prima. E questo era imprevedibile, come tutte le cose. Anzi il Pci allora condannò i movimenti studenteschi, per le forme libertarie che avevano. Il secondo motivo di difficoltà che vedo, e in questo non sono d’accordo in parte con Mario su un punto, (e intanto volevo notare che si trasformano scuole e ospedali in imprese mentre le imprese chiudono, cioè si fa un modello di qualcosa che sta fallendo), che noi viviamo questo nuovo autoritarismo in un momento non di crescita, come era in quegli anni, ma di crisi: e questo fa una differenza fondamentale. Bisognerebbe vedere se c’era una crisi forse prima del 1789, sicuramente c’era prima della rivoluzione russa, ma siamo sicuri che i movimenti di cambiamento, di aumento della democrazia, possono nascere quando c’è una crisi? E questa è una grossa domanda. Allora era tutto in crescita: la popolazione; pensiamo ai giovani: i giovani erano la maggioranza della popolazione in quegli anni, noi eravamo il frutto della bomba demografica del dopoguerra, prima della guerra ovviamente si facevano pochi figli, dal 46 al 50 se ne son fatti tanti; tra qualche anno la maggioranza della nostra popolazione avrà più di sessant’anni. Questi che sono dati statistici mediocri fanno già pensare che abbiamo: popolazione giovanile minore, crisi economica forse strutturalmente più grave del capitalismo europeo e forse occidentale. Terza cose e chiudo, una delle cose più pessimistiche che io vedo, è che non è detto che gli altri modelli di modernizzazione e industrializzazione si possano effettivamente conciliare con la democrazia liberale. Mi piacerebbe pensare che la Cina, che attualmente è il grande buco nero dell’economia mondiale, fra vent’anni possono fabbricare tutto, sono un miliardo e mezzo perfettamente organizzati e sono un impero organizzato da mille e cinquecento anni, quindi hanno una potenzialità straordinaria; mi piacerebbe pensare che, come è successo in Occidente, ci sarà uno sviluppo, lo sviluppo richiede una nuova articolazione delle classi sociali, un cambio delle classi dirigenti, una maggiore democrazia: siamo sicuri di questo? Siamo sicuri che il Giappone attuale, dopo tutti gli anni in cui ha avuto lo sviluppo, assomigli a qualcosa di simile ad una democrazia liberale europea? Siamo sicuri cioè che tutto quello che queste tre generazioni sul tavolo hanno pensato e riflettuto, è una cosa universale o è una cosa che appartiene a una cultura, che ha avuto un eccezionale sviluppo e successo, e che forse non necessariamente la storia l’avrà come futuro. Quindi è un pensiero, che noi ci siamo dati, e penso anch’io che sia un pensiero di grande universalità, ma io incomincio ad avere dei dubbi se veramente sarà quello del futuro oppure no, e quindi la lotta diventa un po’ complicata: oltre le nostre piccole resistenze quotidiane, il mondo purtroppo è molto complesso. Chiudo dicendo che il problema nostro in Italia non è la resistenza, ma la decenza. Van bene questi grandi ideali democratici, ma qua siamo di fronte a un regime cialtronesco. Forse quel pezzo che ci siamo dimenticati nel Sessantotto di capire che cos’è l’Italia. E tutto quello che c’è di cialtronesco, di pinocchio, di tradimenti da quattro soldi, è emerso dalla fogna: dalla fogna è emerso un sacco di roba negli ultimi anni, non solo i fascisti che per cinquant’anni erano rimasti dentro, ma anche quel che di italiano… Sia la Resistenza del 43, sia la nostra, per ragioni diverse, erano un po’ più universaliste, e in questo un pochino con la puzza al naso; purtroppo alla fine la puzza la sentiamo davvero: e neanche nei peggiori incubi pensavamo che questo lato canagliesco degli Italiani venisse fuori come è accaduto: naturalmente non riguarda tutti gli Italiani, però c’è una parte d’Italia che per secoli e secoli è stata così, ed oggi è emersa e purtroppo per tanti periodi del nostro paese è quella che ha comandato, a proposito di classi dirigenti.

 

Giovanna Casagrande: Io ho parlato di disincanto, poi ho visto che questa paroila ha avuto una piccola ricaduta nel corso del dibattito; però volevo dire che è vero: disincanto, non ci sarà un altro Sessantotto, come diceva Saverio, però disincanto non significa disimpegno. Anche se uno è cosciente che la realtà è dura, che è venuto fuori questo magma putrido, tuttavia, proprio per questo, disincanto non significa disimpegno. Ci si impegna ciascuno con le proprie forze, come si può, forse anche cominciando dalle nostre piccole circoscrizioni.

 

Raffaele Rossi: Filippi ha detto che siamo tutti richiamati. E’ stato detto dal poeta: che l’ultimo giorno non mi trovi in ozio.